È l’età giusta

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Davanti alle stradine tutte allagate del parco, sotto quel cielo plumbeo, con le panchine di legno tutto inzuppato, stamattina mi sono sentita a casa. Quel mondo esterno a me, mi aveva chiamato: “scendi!” alla prima finestra spalancata, come da bambina, quando la domenica si apriva con lunghe sorsate d’aria, affacciata in balcone, persa nel canto degli uccelli, nell’ipnotico ondeggiamento delle foglie al vento. Una volta uscita mi sono chiesta perché non provi più a ricercare coscientemente sensazioni come quella. Ne facevo una questione di sopravvivenza, un tempo. Dovevo, sempre, in ogni circostanza, mantenere il contatto con la mia natura panica e allora camminavo, respiravo, mi allungavo al cielo, mi strofinavo all’erba, abbracciavo gli alberi, invocavo spiriti, il tutto in un crescendo di felicità corporea e spirituale che mi caricava, mi faceva forte, quercia indistruttibile nelle tempeste piccole e grandi dell’esistenza. Adesso no, non è più così da tanto. Ho perso la fiducia negli ingenui riti di quel tipo. Ci sono cose più urgenti, più serie, più importanti. Io, tanto, sono sempre io. O no?

Da quando ho aperto il blog (era maggio, il sole tramontava, e tutto il resto),  ho capito che quello era un atto dovuto in primo luogo verso me stessa. Si trattava di riprendere a studiare, di imparare a confrontarsi, di acquistare il coraggio necessario a mettersi in gioco in prima persona, di lasciare esprimersi fragilità e dubbi, di mettersi in discussione e di convincere altri a entrare in quella discussione. È l’età, si capisce. Un’età in cui tutto ciò che ci era stato insegnato dovesse compiersi nel corso della vita, improvvisamente si trova alle spalle, e allora si rischia di restare impalati, fermi, come già morti. Mentre davanti a noi invece si stende un gran nebbione, dal quale pare provenire della musica, accattivante come le sirene di Ulisse.

Io amo la musica, amo anche ballare e, allora, mi è stato impossibile resistere al richiamo. Ma come gettarsi in mare senza un minimo di conoscenza della tecnica natatoria? Bisogna inventarsi o adottare un metodo, uno che sia valido almeno per sé stessi. Il mio metodo è caotico. Ma ha dei punti fissi, è un procedere nella nebbia tenendo per mano una me stessa come appena venuta al mondo, fragile e fiduciosa. Portarla a percorrere, nella loro rievocazione, le altre vite, le differenti me che ancora mi ritrovo dentro. Serve ad andare avanti, questa cosa che io chiamo raccontare. E quella me stessa nuovissima è così preziosa. Sarà forse l’ultima che incontro? Non va tradita, né messa in condizioni di pericolo, di certo merita il meglio, perché sia messa in condizione di restituire altrettanto in significato. E qualche spiccetto, va là, lo si può investire in questa causa.

L’Espresso da qualche settimana allega le uscite di una collana di DVD dal titolo “La Psicologia”, un’opera in 16 capitoli che ogni tanto mi convince a tirare fuori dalle tasche ben più dei soliti spicci e “accattarmi” anche la rivista. Stamattina è andata così. Il DVD ha per titolo “Le neuroscienze”, a cura del neuroscenziato Alberto Oliverio. Le neuroscienze costituiscono il nuovo incontro, ancora in fieri , tra le diverse branche della medicina e della filosofia, differenziatesi e, in un certo senso, messe in competizione l’una con l’altra nel corso della Storia. Il DVD merita un certo raccoglimento, devo trovare il tempo di vederlo, ma il libretto allegato potevo sfogliarlo anche per strada, uscita dall’edicola. Ecco la sua apertura:

Non è un caso che in questo grafico sia Proust ad avere l’onore di aprire, accanto alla nascita della Società psicoanalitica internazionale, la serie degli eventi paralleli allo sviluppo delle neuroscienze. La pubblicazione di Dalla parte di Swann segna l’apertura del mondo letterario alla dimensione mentale, in tutta la sua complessità*. L’episodio della madeleine, lì contenuto, viene interpretato da Julia Kristeva in questo modo:

…il ragazzino assapora una tazza di the nella quale è inzuppato un dolce molto particolare, “corto e gonfio”, egli dice, che si chiama “madeleine”. Quest’esperienza, che è del tutto insignificante, lo porta in uno stato di felicità e quasi di estasi che egli tenta di comprendere. Cerca di far questo gustandone una seconda sorsata, ma in quel momento la sensazione si arresta. Il ragazzino si pone di nuovo delle domande sulla sua sensazione. Questo mi sembra il percorso di ogni esperienza di scrittura: tentare di passare dalla sensazione alla parola, trovare il significato della sensazione.

Non è un’operazione così banale. Prima di tutto, occorre essere coscienti di essersi incamminati alla ricerca di qualcosa. Si dice che chi scrive intende soprattutto “esprimersi”. L’espressione come fine non fa per me.

E poi, mica ho tempo da perdere in esercizi di esibizionismo, devo inseguire la mia madeleine, che si nasconde dentro un caleidoscopio di reali o mentite spoglie. La afferro, a tratti, e mi sembra di riuscire ad assaporarla con gusto. In quel momento però, tutto si dissolve, proprio come un biscotto di burro sul palato, e mi trovo di nuovo avvolta nella nebbia. Così, visto che ne sono cosciente, non mi fermo a quella illusione di sconfitta, ma testardamente mi rimetto alla ricerca. Allora ogni spunto può avere la sua utilità. Ed ecco che stamani, sulla panchina bagnata dalla pioggia, sopra la quale avevo messo la pellicola che avvolgeva la rivista, mi sono seduta a leggere L’Espresso. E ho trovato briciole di madeleine, ve le condivido così, nell’ordine nel quale si presentano:

– pag. 66Come ci cambia facebook” di Elisa Manacorda. In sintesi: I ricercatori dello University College di Londra hanno scoperto che i nativi digitali hanno una quantità superiore di materia grigia nell’amigdala, mentre, più o meno contemporaneamente, i ricercatori della Jiao Tong University medical School di Shanghai, nel cervello degli internet-dipendenti hanno trovato una predominanza di materia bianca, analogamente a quanto si ritrova nei cervelli di chi dipende da alcol e droghe e dei giocatori compulsivi. L’articolo procede esponendo le posizioni di ottimisti e pessimisti riguardo alle modificazioni che subisce il cervello umano, sottoposto all’”esperienza” di internet, citando alcune altre ricerche autorevoli e concludendo che, sì, i ragazzi fanno più affidamento sulla “memoria esterna” costituita dalla rete, piuttosto che sulla propria, col risultato di indebolire la capacità di memorizzare e poter utilizzare in autonomia le informazioni utili per affrontare la realtà, ma allo stesso tempo questa sorta di delega consente loro di sfruttare la mente per fare ragionamenti di portata più estesa, trarre conclusioni di maggiore efficacia e sintesi e, non ultimo, imparare a catalogare e collegare all’occorrenza, sapendo dove andare a cercarli, i dati utili a determinati scopi.

Buon pro per loro, io sono fiduciosa. Per quel che riguarda me, confermo tutto: da maggio ho visto indebolirsi la mia capacità di stabilire le giuste priorità nella vita quotidiana, aumentare la dipendenza dalle informazioni e dai fatti che originano dalla rete, ma anche crescere nella competenza di connessione tra eventi e informazioni, nella velocità di reperimento dei necessari approfondimenti, paradossalmente ho registrato un aumento del tempo dedicato alla lettura, ed in particolare alla lettura critica, una maggiore apertura alla socialità. Come mi sento giovane.

– pag. 132 “Quanto ci costa non fare” di Stefano Livadotti e Giulia Paravicini . Della serie “dove andremo a finire” se qualcuno non inizia ad impegnarsi per cambiare le cose, e invece stanno tutti lì, belli riparati dietro ai loro schermi a ripetere bovinamente le opinabili opinioni altrui. In questi termini si parla spesso del cittadino medio nonché dell’internauta che se ne sta seduto invece di migliorare il mondo. Non è sempre così. Infatti per il mondo si aggirano menti ingegnose, e sono per lo più ragazzi, che lavorano a testa bassa (spesso divertendosi) per congegnare reti alternative ad internet, e meno controllabili, nuovi programmi open source, nuovi modi per diffondere conoscenza ed interscambio, che tornino vantaggiosi soprattutto laddove la censura impedisce a intere popolazioni di poter crescere e usufruire dei vantaggi, indubbi, dei nuovi mezzi di comunicazione. Io sono sempre più convinta che questi “giovani”, domani che non lo saranno più tanto, faranno tutt’altro che sedersi in poltrona davanti alla tv. Indietro non si torna, in questa società.

E quest’immagine:

come stride. Come stride con le leggerezze di chi amministra il denaro pubblico. Cose che fanno accapponare la pelle – non per il freddo -, come il Comune di Roma, ormai ribattezzato Roma Capitale, ma non riesco a dirlo, che programma la costruzione di piste da sci… ad Ostia.

– pag. 194 “Viaggio dell’anima tra quaggiù e laggiù” di Eugenio Scalfari.

Il trauma della perdita del figlio porta David Grossman, ”anima errabonda”, a smettere di cercare

… la verità, né il senso ultimo della sua esistenza. Ove mai l’avesse cercato prima di allora, un evento, un’irreparabile sventura le ha tolto il bisogno di una motivazione. Quell’anima ha subito un trauma definitivo, una mutilazione insostenibile che ha annullato il pensiero e quindi la ricerca del senso. In un mondo insensato non esistono più le forme, tutto è indistinto, tra l’esistere e il non esistere non ci sono confini, non c’è vera vita né vera morte ma soltanto l’”essere” allo stato puro. L’”essere” è caotico per definizione, sostanza senza forma, impalpabile fluidità.

Ma Grossman, ricorda Scalfari,

… nei sei anni trascorsi dal trauma ha vissuto e operato, ha mantenuto e perfino accresciuto il suo impegno civile, politico, letterario. Ha insomma continuato a realizzare sé stesso al punto di concepire il “quaggiù” e il “laggiù” che postulano poeticamente quell’”essere” che è ovunque e in ogni luogo, che non conosce luce né buio, che ha cessato di creare forme ed estenua quelle esistenti senza tuttavia cancellarle del tutto, ombre di un sé stesso che giace non nella morte ma in un eterno e immemore riposo. Questa è l’arte e la sua forza.

Toh, al trauma, che secondo Jacques Lacan, consiste nella lacuna del linguaggio, nella sua mancanza di significato (c’è una certa somiglianza con la poetica di Grossman) è dedicato “Lacan e la psicologia del linguaggio”, di Massimo Recalcati, ho letto in quarta di copertina del DVD della collana La psicologia. Solo che l’ho perso, quel numero. Avrò altre occasioni, posso supporre. Finché c’è vita, al gioco delle madeleine non può esservi fine.

Di Proust ho un ricordo panico. Avrò avuto sì e no dodici anni quando tenevo con leggerezza tra le mani “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Stavo a gambe incrociate su una sedia di vimini in giardino, d’estate, posso immaginare di aver avuto indosso un vestitino di cotone a fiori – non è che mi ricordi – e lo leggevo con innocenza, mi suscitava solletico, passeggiate di formiche sulla schiena. Intorno a me cinguettavano gli uccelli, frusciavano le foglie che il vento attraversava risalendo i rami, nei loro giochi di luce e ombra, e mi sentivo bene. Finché un giorno ricevetti un’occhiataccia da mia madre che disse che era “un po’ prestino per leggere certe cose” Così, senza farmi domande, soltanto un po’ delusa, riposi il libro tra gli altri volumi, certa che ne avrei ripreso la lettura, una volta raggiunta l’età giusta.

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*) Sulla relazione tra Proust e le neuroscienze, mi riprometto la lettura di Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge di Maryanne Wolf, Ed. Vita e pensiero, 2009

 

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Paolo Conte – Madeleine

Qui, tutto il meglio già qui,
e non ci sono parole per spiegare ed intuire
e capire, Madeleine, e se mai per ricordare
tanto, io capisco soltanto
il tatto delle tue mani e la canzone perduta
e ritrovata
come un’altra, un’altra vita
Allons, Madeleine,
certi gatti o certi uomini,
svaniti in una nebbia o in una tappezzeria,
addio addio, mai più ritorneranno, si sa,
col tempo e il vento tutto vola via…
Ma qualche volta è così
che qualcuno è tornato sotto certe carezze…
e poi la strada inghiotte subito gli amanti,
per piazze e ponti ciascuno se ne va,
e se vuoi, laggiù li vedi ancora danzanti
che più che gente sembrano foulards…

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11 Risposte to “È l’età giusta”

  1. tramedipensieri Says:

    Ho letto tutto e, devo dire con molto interesse.
    Qual’è l’età giusta?
    Non c’è un’età giusta perchè ognuno di noi, penso, ha un “età” che è data da tutto un “vissuto” che di contraddistingue e che porta, inersorabilmente, a letture diverse.
    I social hanno cambiato la nostra vita.
    Non c’è ombra di dubbio che abbiano interferito non poco nei contatti reali tra persone vicine, forse più vere nonostante a volte “antipatiche”
    Si è perso il confronto e, a volte, lo scontro…cosa non da poco per capire noi stessi e gli altri.
    Questi i miei pensieri a caldo dopo una sola lettura.
    Sarebbe bello ritornarci per rifletterci e fare delle considerazioni su molti punti presenti nel post. Tutti molto importarti.

    Grazie.
    Buona giornata
    .marta

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    • icalamari Says:

      Grazie a te della lettura attenta. Sì, torniamoci su, questo – non sembrerebbe forse, ma il fatto è che sono lenta e prolissa, ahimé – è solo un post scritto a caldo.
      Buona giornata Marta,
      f
      🙂

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  2. stefano mosso Says:

    “Ma anche dal punto di vista delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non ha che andare a prendere visione come d’un capitolato d’appalto o d’un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui”… Sempre tratto da Proust…questo passaggio mi aveva folgorato (molto più di quello più celebre della Madeleine), anche perché letto in tempi in cui ero digiuno di letture socio-antropologiche…Se poi consideri quando fu scritto…!!!

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  3. Mariano Says:

    Il tuo dialogo interiore, che a volte spunta da una rassegna stampa, restituisce assai in termini di significato. Nei racconti sei generosamente grande.

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  4. iraida2 Says:

    Non smettiamo mai di cercare e chissà che non sia questo il senso del nostro stare al mondo?

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    • icalamari Says:

      …Mmm… Proprio “il” senso, forse (a mio avviso) no. Dubito che si possa trovare un senso. Piuttosto, secondo me, l’atto di cercare impone di mantenere una consapevolezza di sé in ogni circostanza, di accorgersi di esistere, di avere altri attorno, di rispettarli, e così, di contribuire a migliorare le cose (che restano comunque senza senso). Forse.
      Mah… 🙂

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