Sliding Europe #2

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Mayer Hawthorne – Her Favorite Song

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A. si guardava i polsi. Se li rigirava davanti agli occhi, contemplando l’effetto delle dita rigidamente flesse da manichino nudo esposto in una vetrina fronte strada. Alla ricerca di un equilibrio estetico che la portasse fuori dal suo ondeggiamento, non decideva ancora se filare via di lì finché era in tempo, o uscire da sé stessa, e smetterla di fare tante storie. Ma il tempo che era rimasto si estinse nel battito di ciglia che dilatò le sue pupille, quando sopra la vita si impresse il tocco di una  mano sconosciuta, e sulla Vita si posò una cappa pietosa di raso e seta buia quanto il futuro che l’attendeva fuori dal locale.

Poi, dentro la notte breve, emersero in superficie bolle vetrificate di verità, incongruenti e sparse, le immagini dal giorno. Il faccione del Prof fu il primo a venirle incontro,

– Bambina…

a rassicurarla che tutto si stava svolgendo molto al di fuori dei margini del reale.

– Prof…

Lui era stato gentilissimo, lei gli si era affezionata subito senza farsi domande. Poteva scambiare altro per l’odore di santità di uno che sembrava aver rinunciato alla più dannosa delle gratificazioni? L’assenza di una sessualità attiva, quella era la virtù che ora marcava la distanza tra i buoni e i cattivi, per lei che aveva alle spalle una serie ininterrotta di rospi ingoiati a forza, e puntualmente non digeriti. La sua tenacia, spesso vicinissima all’ottusità, la manteneva aperta alla fiducia negli altri.

Lo sconosciuto le parlò bruscamente, lei si mosse attorno, le labbra strette e le narici dilatate. Si avvicinò alla finestra,  poi agli interruttori dei vari abat-jour disseminati al posto di un unico lampadario centrale. Diresse la regia della penombra in stanza. L’altro frattanto aveva pisciato con la porta aperta, era tornato e aveva aggiunto frasi di circostanza all’impaccio che già li divideva. Lei era rimasta ai piedi del letto ad attenderlo. Li separava un metro di moquette scarso, quando A. si guardò un ultima volta i polsi e pensò al Prof.

Il Prof. “abitava” le stanze del Dipartimento di Studi Genetici dell’Università Xxx. Durante l’attesa del colloquio, A. aveva fatto bene a decidere di non andare in bagno. Quella scelta aveva provocato una catena di conseguenze. La prima, la peggiore, fu di essersela fatta addosso. Mentre fuggiva via, venne bloccata da quella stessa segretaria che fino a un minuto prima aveva recitato il ruolo di carceriere dei candidati in attesa di giocarsi il posto. Fu lei a condurla velocemente alla toilette e lei a correre a parlare con il Professore, appena rientrato dalla commissione medica di cui era membro, stanchissimo e confuso, desiderando solo di andare a chiudersi in casa.

In altri tempi avrebbe lasciato a malincuore anche un colloquio insignificante come quello, ma  i pretendenti accorsi erano davvero troppi. Stava per comunicare la decisione di far proseguire fino al termine il suo sostituto, il sadico Dotti, ma una dottoressa aveva fatto sapere di aver avuto un incidente, un caso particolare, Professore. Che ne pensa, ce la facciamo a incontrarla domattina?

Durante la conversazione tra il vecchio Prof. e la sua segretaria, Dotti fu fatto uscire in fretta, ghignante per i danni che era in ogni caso riuscito a produrre in poco tempo.

A., con i suoi pesi a tracolla e la vergogna tra le gambe, si ritrovò in corridoio a fare passetti stretti proprio dietro a lui. La fila nel bagno delle donne era lunghissima, ma non aveva più alcuna fretta e tollerò lo scorrere del tempo. Un’altra donna, invece, si avviò verso la porta degli uomini da cui venne travolta, spintonata dal ciclone Dotti contro il muro. Tra le due aleggiò per qualche istante un’occhiata muta.

La riconobbe a un angolo di strada, che percorsero affiancate per un buon tratto. A. era diventata leggera, e dispensò a ruota libera aneddoti della sua vita fino a quel colloquio. L’altra restò quasi impassibile, A. ebbe l’impressione di un tipo torbido. Bruna, grandi occhi colorati anche senza trucco, guance segnate da un acne debellato di recente. I jeans che costringevano riottose formosità mediterranee. Le accennò giusto furtivamente a Dotti, di quello che accadde dopo, durante il breve colloquio che seguì il bagno. Fallimentare per il posto di addetta all’immissione dati, ma compensato subito dalla proposta di un lavoro serale. Notturno, anzi. A. spalancò occhi e bocca. E poi li spalancò ancora, quando le fu chiaro, tra le righe della conversazione smozzicata, che l’altra aveva accettato.

Il giorno successivo, quando percorse lo spazio a ritroso, fino a tornare dove aveva sostato a lungo solo poche ore prima, si trovò sola dentro la grande sala. Si scosse in un brivido improvviso dal torpore mattutino: sperò di non ricevere sorprese almeno dal vecchio Prof, del quale aveva intravisto l’apparenza onesta.

Lui era basso, panciuto sotto il camice, la testa calva in sommità esibiva il vezzo di una corona di ricci bianchi e disordinati a pendergli sul collo. Le venne incontro sulla soglia e, prima di ogni altro convenevole, prese il suo polso come una porcellana antica, lo sollevò all’altezza degli occhiali e l’osservò per un buon mezzo minuto. A. non si mosse. Vedeva le vene batterle in piccoli guizzi che scomparivano infilandosi sotto la presa delle dita grinzose e gonfie.

– Lei, – le disse, fissandole la pelle bianchissima sotto la cui superficie traspariva un reticolo azzurrognolo, – ha il polso sottile. Come quello della mia povera mamma.

A. fu visitata dall’idea di un colorito pallido e di giunture finissime. Si rese conto che il Prof. la stava paragonando a un mito e ne arrossì in silenzio.

Ma il Prof., un uomo di una settantina d’anni scarsi mal portati, ricordava una figura inginocchiata ore sopra i pavimenti altrui, le mani rosse e scorticate che a sera, le carezzava piano. Amò la ruvidità della pelle di quella madre anni cinquanta del secolo ventesimo, dai vestiti rimessi a nuovo anno per anno, le scarpe sformate e comode, i capelli corti a ciocche diseguali, le occhiaie fonde. Sottili ma forti, furono polsi che lo allevarono da figlio della guerra, senza fargli mai sentire la mancanza di alcunché di materiale. Lui, solo sfiorandoli sul tavolo dopo la cena, capiva ciò che c’era da capire sul mondo, e prendeva decisioni su ciò che avrebbe fatto per riscattare tanti sacrifici.

Il Prof. la condusse a una poltrona di pelle dal colorito esausto, in posizione d’angolo rispetto alla scrivania. Faceva caldo in quei giorni romani di primo autunno. Le propose un bicchier d’acqua, che lei rifiutò con un sorriso forzato.

Aggirata la scrivania e messosi a sedere a sua volta, aveva raddrizzato le spalle e chiesto ad A. come se la passasse in tempi di crisi, quale fosse la sua provenienza, di quale laurea disponesse e se avesse amici buoni e un affetto saldo su cui contare.

A. neanche provò a giudicarlo eccentrico, testimoniò la sua competenza nell’attività di data entry, parlando della tanta gavetta fatta a seguito del titolo di dottoressa in scienze statistiche, tacendo del periodo di bar e baby sitting nel quale stava rischiando di ingolfare la propria vita, e di altri dettagli inutili. Lo informò di sé sommariamente e disse che, sì, un uomo lo aveva, decidendo però  di non specificarne l’affidabilità.

Intanto l’uomo della stanza aveva smesso di parlare, e la penombra si era fatta fin troppo chiara. Lei aveva preso fiato e compiuto con la mano un gesto che lo invitava ad avvicinarsi. Tennero entrambi ancora le braccia lungo i fianchi, mentre i loro respiri si scontravano rimbalzando impercettibilmente in punti sempre diversi compresi tra lo sterno e il bacino. Le labbra di lui andavano continuamente rimesse a fuoco. Erano carnose, dischiuse, attorniate da piccole rughe d’espressione. Sembrava avessero un messaggio da recapitarle. Quando non ne poté più, sorpresa della professionalità del proprio tono di voce, disse

– Ok. Cominciamo.

Sollevò gli occhi dal petto che ansimava verso le stecche della tapparella semiaperta. Era l’inizio del giorno, il letto sfatto era occupato da lei sola, la sua mano stringeva forte la sveglia sopra il comodino e il cane le leccava il viso, reclamando sommessamente la propria colazione.

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2 Risposte to “Sliding Europe #2”

  1. Nicola Losito Says:

    Un simpatico finale.
    Nicola

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