La formazione del rivoluzionario

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Che meraviglia la nuova rubrica di Vibrisse curata da Matteo Bussola, La formazione della fumettista e del fumettista che prende il via oggi con un testo di Cristina Mormile. Mi ha fatto venire voglia di prendere su la tastiera e scriverne.

Non ho mai commentato i post su “La formazione della scrittrice e dello scrittore”, che pure leggo molto volentieri, non mi sento all’altezza: bazzico la scrittura restando sempre e solo ancora in prevalenza una lettrice. Ma questa volta è diverso, e non perché sia una disegnatrice di fumetti.

Ho appena regalato a un caro amico una quindicina di buste della spesa cariche di fumetti Marvel e DC Comics che furono acquistati da mio fratello quando era ancora studente (il più delle volte, immagino, coi soldi della cresta fatta alla spesa di mia nonna). Erano stati per anni accatastati sul pavimento di un box coperto da erbacce, in fondo al giardino di casa dei miei alla periferia di Roma. Un anno fa li avevo portati da me, sfilati dalle buste, ne avevo scollato le pagine, spolverati tutti a uno a uno e ri-infilati in nuove buste numerate. Accatastandoli nello spazio vuoto tra pianoforte e divano.

Volevo catalogarli e rivenderli, mio fratello ormai vive lontano e a me pareva un peccato buttarli. Quando però, dopo alcuni mesi di inerzia, la polvere ha ripreso il sopravvento, mi sono arresa all’evidenza di non avere abbastanza tempo e costanza per fare quello che mi ero prefissata. Buon per il mio caro amico, dalla natura insaziabile e generosa, anche quando veste soltanto i panni del divoratore di fumetti.

– Conservarli per leggerli, no?

Mi annoiano le saghe, i fantasy, figuriamoci le storie di supereroi. No, non li avrei tenuti comunque.

Comics d’infanzia a parte, sono cresciuta a pane e Moebius, Manara, Caza. In seguito conobbi Sienkiewicz, Miller e altri autori di affascinanti tavole straniate e psicotiche. Continuai a leggere fumetti in proporzione inversa al mio crescente avere a che fare col disegno (tecnico) e ho ripreso da poco, “costretta” da mio figlio, che ormai preferisce la lettura serale di strisce di Asterix e Topolino, a quella di libri densi di parole.

Non gli do mica torto. Io, che butto giù a tempo perso righe su righe su questo blog e altrove, riconosco al fumetto la stessa dignità del libro tutto scritto. Forse non sarà mai il mio genere prediletto, mi coinvolge troppo la buona scrittura, e poi da bambina lessi Poema a Fumetti di Dino Buzzati, scoperto in mezzo ai libri di mio padre e da allora, rispetto alle graphic novel, trovo che la preponderanza di immagini seducenti porti con sé troppe semplificazioni del testo scritto, invertendo di fatto l’importanza dei due media.

Ma, come Cristina Mormile, anche io avrei voluto fare il Liceo Artistico. Disegnavo benissimo, ero considerata un talento tra i compagni di classe. Durante elementari e medie distribuivo tavole con dediche e realizzavo disegni per supplire ai mancati compiti degli altri. Mio fratello idem. Lui, a dieci anni realizzava perfino esperimenti con la settima arte (insieme al compagno di scuola elementare, oggi divenuto tra l’altro un bravo fumettista, Stefano Piccoli), ma questa è un’altra storia.

Siamo stati bambini fortunati, perché sempre incoraggiati dai genitori a coltivare i nostri talenti. Ma, al dunque, abbiamo optato per scelte molto sensate: io il Liceo Classico e lui il Liceo Scientifico. Per queste scelte, e per quelle che ne sono derivate, oggi abbiamo costruito entrambi un presente che nulla ha più a che fare con le arti grafiche e viviamo entrambi routine quotidiane per quanto mi riguarda alienanti, che però garantiscono ai nostri figli un tetto sulla testa, cibo in tavola ogni giorno e l’opportunità di qualche sfizio.

I tempi sono cambiati. Cristina Mormile, con la sua testardaggine, ha realizzato ante-litteram quello che oggi sembra diventare sempre più un obbligo per i ragazzi che si affacciano al futuro. Le trasformazioni in atto impongono alti livelli di flessibilità mentale e grande fiducia in sé.

Tra i miei amici annovero artisti di strada e di palcoscenico, creativi nei campi delle lettere e del disegno, persone che in piena maturità hanno saputo reinventarsi vita e lavoro. Non sempre per necessità, sia chiaro. Quando ci incontriamo e parliamo insieme dei fatti e dei problemi piccoli e grandi che ci accomunano, colgo una differenza fondamentale tra noi: i miei amici governano il senso delle loro vite.

È dura mettere da parte le proprie abitudini mentali, come lo è arrendersi davanti all’evidenza che già oggi il “pezzo di carta” (Diploma o Laurea) non garantisca affatto il posto di lavoro. O tentare di rispondere alla domanda: Se tutti si avviano a vivere seguendo il proprio genio, a chi spetterà il compito di svolgere le umili mansioni quotidiane, i lavori più faticosi o ingrati, quelli senza i quali avverrebbe il blocco completo della nostra società? Ma confido che questa risposta la forniranno ben presto i diretti interessati.

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Logan LaPlante alla conferenza TED tenuta presso l’Università del Nevada

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11 Risposte to “La formazione del rivoluzionario”

  1. andrea barbieri Says:

    Il titolo della rubrica di Vibrisse però è fuorviante, sembra mantenere la diversità di ruolo e la differenza di genere che è un atteggiamento tipicamente sessista.
    L’intenzione di Mozzi sarebbe invece mostrare come, in una società sessista, i percorsi formativi e di emersione dipendono dal sesso delle persone – cosa indubitabile.
    Immagino che il titolo sia stato suggerito da Mozzi a Matteo Bussola.

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    • frperinelli Says:

      Andrea, come forse avrai notato, il mio post è intitolato in modo leggermente diverso da quello scelto da Giulio Mozzi per la sua rubrica (curata, sì, da Matteo Bussola ma pur sempre interna a Vibrisse; dunque perché non dovrebbe essere stato lo stesso Mozzi a deciderne l’intestazione?).
      Io scrivo “La formazione del rivoluzionario”, perché per me è indifferente mettere l’accento sul genere del sovversivo preso in analisi. E anche perché amo la sintesi.
      Al momento di comporre il titolo sulla falsariga dell’altro, mi sono domandata anche io il perché della scelta dello sdoppiamento fatta in Vibrisse (“La formazione della scrittrice e dello scrittore”, “La formazione della fumettista e del fumettista”) quando sarebbe stato più semplice e immediato usare la convenzione di far rientrare entrambi i generi nel termine maschile.
      Ma non ci ho visto sessismo, nemmeno per un istante. Anzi, ho gradito, da persona non sessista, la premissione del genere femminile a quello maschile, una forma di cortesia che, peraltro, usa abitualmente anche la comunità gay (Cfr. ad es. http://arciliguria.it/2014/06/11/tutta-larci-e-vicina-a-compagne-e-compagni-lgtb-per-la-scomparsa-di-lilia-mulas-grande-combattente-per-i-diritti/).
      Quanto alla curiosità sulla reale “intenzione di Mozzi”, credo che sarebbe meglio soddisfarla alla fonte.

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  2. Wish aka Max Says:

    Che bello rileggerti. Quando passa la buriana pranzetto. Ok?

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  3. andrea barbieri Says:

    No, non era una domanda, era un’affermazione:

    L’intenzione di Mozzi sarebbe invece mostrare come, in una società sessista, i percorsi formativi e di emersione dipendono dal sesso delle persone – cosa indubitabile.

    Discutemmo tempo fa e mi disse che quella era la sua intenzione.

    Lui si era un po’ arrabbiato perché gli avevo chiesto per quale ragione ritenesse di classificare gli artisti in base a ciò che avevano sotto le mutande, criterio che a me appariva piuttosto bizzarro.
    Cioè, io scrissi quella cosa esattamente per farlo arrabbiare, e lui mi diede una grande soddisfazione sostenendo che la mia scelta retorica era inopportuna eccetera eccetera 🙂

    Eppure quella provocazione diceva qualcosa di assolutamente vero: classifichiamo gli esseri umani in base a ciò che hanno nelle mutande, oppure detto in modo più urbano, in base al sesso attribuito all’anagrafe. Lo facciamo con una tale naturalezza da non renderci conto che effettivamente dare tanta importanza alle mutande è assolutamente bizzarro.

    Alla fine lui mi rispose quel che mi aspettavo che rispondesse: esistono delle differenze culturali e può essere significativo farle emergere. Cosa assolutamente vera.

    Immagino che venga da chiedersi perché fare quel giro per ottenere la risposta che si conosceva?
    Perché quel giro era necessario per mostrare il lato problematico della classificazione in base al sesso. E la provocazione serviva per rompere quell’incantesimo che ci fa vedere la cosa come ovvia e sensata.

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    • frperinelli Says:

      Andrea, per favore, non insistere con argomentazioni non verificabili senza chiamare a risponderti il diretto interessato (cosa che non ho intenzione di fare). Oltretutto i tuoi commenti sono completamente estranei all’argomento del post. Grazie.

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  4. frperinelli Says:

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  5. andrea barbieri Says:

    Più che altro era l’esposizione di un fatto.
    La verifica è semplicissima:

    “”ciò che con deliberata (e retoricamente inutile) volgarità Andrea Barbieri chiama “contenuto delle mutande”) influenza o addirittura determina, fin da quando è un mero “contenuto del pannolino”, l’educazione delle persone: fin dalla prima ecografia interpretabile si comprano camicine rosa o azzurre. Questo è un dato di fatto: la stragrande maggioranza della popolazione si comporta così. Quindi esiste una differenza culturale tra donne e maschi, e chi sostenesse che questa differenza sia irrilevante in generale, o irrilevante in una formazione artistica o letteraria, sosterebbe – credo – una sciocchezza.”” Giulio Mozzi

    link:

    La formazione dello scrittore, 1 / Valerio Magrelli

    Ma francamente non vedo il problema, come ho già scritto Mozzi ha sostenuto un’idea assolutamente corretta che anch’io condivido.
    Quindi (questa è un’argomentazione) il titolo della rubrica di Vibrisse non è tanto un “gesto di cortesia” dentro un ipotetico mondo suddiviso in artisti femmine e maschi, ma una classificazione funzionale a mettere in evidenza le difficoltà che incontra una persona di sesso femminile nella formazione/emersione artistica.
    Tra l’altro nel bel testo scelto da Bussola la cosa è evidente, c’è un contesto patriarcale (“é meglio se fai la cameriera”), che poi per fortuna si risolve con un riavvicinamento.

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  6. andrea barbieri Says:

    Ho letto la tua risposta di ieri: in sostanza davi a intendere che avessi detto una cosa falsa. Quindi ho dimostrato che non era una cosa falsa.
    Invece in questa ultima risposta tenti di offendermi.

    Quindi stai serena perché ti saluto io.

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