In busta chiusa: U come Umore – Ubbidiente – Ufo (con Cartaresistente)

by

u_francesca

In Busta Chiusa n. 21, un progetto di Cartaresistente
Lettera U di Francesca Perinelli
Illustrazioni di Davide Lorenzon

Ehi? Toc toc… Ciao. Sì, sono io. Adesso calmati, non ci sentiamo da un sacco e, lo so, lo so che mi credevi morta, in un modo atroce di quelli su cui ti piace ricamare. Che ne so, succhiata nel reflusso di un geyser, divorata da un orso, rapita dagli alieni (pare che qui ci vengano a svernare, coi loro Ufo ben mimetizzati tra i ghiacci), esplosa davanti allo specchio insieme ai miei foruncoli ingigantiti visto che ormai mangio quasi solo porcate. Roba facile per te da immaginare, ti avevo detto sommariamente come avrei vissuto quando mi sarei trasferita ma, poi, basta. Di me nient’altro. Per sicurezza avevo distrutto ogni traccia che ti consentisse di localizzarmi in futuro e ti avevo imposto di non provare neppure a cercarmi. Da quando me ne sono andata, anche se non mi hai ubbidito, non ti ho più scritto, non ho risposto alle lettere, alle telefonate, ai messaggi che hai inviato a casa dei miei genitori. Ho ignorato pure i tuoi richiami mentali, tanto ci credi soltanto tu a quella cazzata della telepatia. Volevo sparire, davvero, mi ero stufata di te, di noi, di tutto. Speravo che rotolandomi nella più misera, elementare, noiosa, basilare, innocua condizione di vita mai provata mi sarei sentita finalmente libera di riprendere a respirare, senza pensarvi più (a nessuno di voi, tanto per chiarire, a nessuno). Ma per tanto tempo mi sono solo sentita più apatica di prima. Adesso, però, te lo devo dire, c’è qualche novità. C’è un ragazzo che stira i colletti degli abitanti di questa città, nella lavanderia di sua madre. L’ho incontrato nel retrobottega del negozio, mentre buttavo la spazzatura di una settimana senza neanche turarmi troppo il naso (già: sono diventata perfino meno schizzinosa). Stavo davanti al secchio, col sacco chiuso male che sgocciolava roba scura e maleodorante a terra, e ho bestemmiato sottovoce perché avevo sporcato il giaccone chiaro di renna, l’unico che ho portato via dall’Italia, l’unico che avevo da indossare quel giorno (l’altro lo avevo appena dato alla madre di lui, del ragazzo, alla proprietaria della lavanderia, perché me lo ripulisse, che ultimamente sembro proprio una stracciona, devo darmi una mossa, è ora di trovare un lavoro, altrimenti quelli di qui si rendono conto che sono una mangiapane a tradimento, una che gratta i risparmi dei suoi vecchi invece di guadagnarsi da vivere, come da queste parti fa chiunque abbia più di vent’anni) e faceva un freddo cane e, insomma, avevo appena detto una bestemmina leggera, ma, devi credermi -lo sai che ci tengo a non dare nell’occhio-, l’avevo fatta uscire dalla bocca a un volume appena udibile, ma mi sono dovuta lo stesso guardare attorno, come se fossi ancora in mezzo a voi, bigottoni chiesastici pesapersone, e non ho fatto in tempo a smettere di sentirmi inutilmente in colpa, che ho notato lui, inquadrato nella porta del retrobottega, con una sigaretta in bocca e il fumo che ricadeva verso il basso, come ghiacciato e cristallizzato all’uscita dalle sue labbra viola. Stava tranciando una lattina di Coca con un enorme paio di forbici da sarta. Mi è sembrato così strano che ho gettato l’immondizia (aperto il secchio con la mano sinistra, calcolata la forza necessaria da imprimere al braccio destro e lanciato il sacco all’interno con la sua scia di percolato a scodinzolargli dietro; richiuso il secchio, preso un fazzoletto dall’interno di una tasca del giaccone, strofinato le mani fino a immaginare di averle ripulite) senza staccargli gli occhi di dosso. Il tipo pure ha alzato lo sguardo su di me e non l’ha riabbassato, anzi. Sembrava un invito a venirgli vicino, e l’ho fatto, senza domandare permesso: mi sono piazzata proprio davanti a quel ragazzo, davanti alle sue mani. Ha smesso di guardarmi per appoggiare le forbici in terra, sulla soglia (ho notato che la porta era semichiusa – visto mai la madre lo richiamasse in negozio, ho pensato). Ha arrotolato la sagoma di una rosa di latta, ne ha ripiegato i petali all’infuori, poi ha ripreso le forbici e, dagli avanzi di alluminio, si è messo a ritagliare una specie di stelo. Lo ha attaccato sul fondo del fiore, si è rigirato il tutto tra le dita con un’espressione soddisfatta e poi, soltanto allora, ha risollevato lo sguardo su di me. I suoi occhi erano bottoni neri dentro due asole strette che ammiccavano da un ciuffo di capelli biondi, quasi bianchi. La faccia piena di efelidi. Forse avrà avuto diciott’anni, forse di più, qui la gente matura in fretta ma mantiene sempre un aspetto infantile che non ti fa decidere che tono usare nelle conversazioni. Almeno secondo me. Io vengo da un universo talmente differente che neanche ci provo a spiegarlo, quando mi chiedono: “Com’è l’Italia?”. Mi sono accorta di un colpetto sullo sterno, dato col polso. Tra i miei occhi e l’ultima estremità della sua frangia, ondeggiava un’ombra che poco fa non c’era. “Tieni”, mi ha detto, sfiorando con la rosa la punta del mio naso. Ci siamo appoggiati agli stipiti, parlando e a fumando insieme. Ogni tanto lui e la madre si lanciavano qualche frase a voce alta tra esterno e interno della lavanderia. Lui ruotava la testa di un’angolatura innaturale, mantenendo tutto il corpo ben fermo, e mi bloccavo a fissargli l’emersione di rigagnoli azzurrini sulla superficie del collo e di filamenti tendinei al di sotto della pelle, liscissima e tesa. In quei momenti ancora non avevo cambiato umore. È stato dopo, parlando di me e di te, quando è saltato fuori l’argomento, quando stavamo discutendo di vita e di libri -ne legge, di libri- che dalla sua voce misurata è saltata fuori una nota più acuta: “Quindi sei una persona scomparsa… Anche tu!” (Che in questo buco di posto ai confini del mondo la gente ci venga a sparire, io lo sapevo bene. Non mi era chiaro però fino a che punto venisse tollerato. “Benvenuti a …, Paradiso Degli Scomparsi”, avrebbe potuto recitare il cartello all’ingresso della cittadina. In fondo anche gli abitanti avrebbero avuto il diritto a far perdere ogni traccia di sé ma, partendo da questo posto, dove altro sarebbero potuti andare?). “Hai notato che ormai tutte le trame (rosa, gialle, grigie, arcobaleno) si reggono su una sparizione? Non si riesce più a leggere altro”, ha detto. È stato allora che mi è apparso tutto chiaro, che ho capito di aver sbagliato meta cercando di dissolvermi. Che, anzi, come tutti gli abitanti di qua, provavo un desiderio folle di connessioni reali, che nei libri cercavo nuove trame di vita, che avrei voluto ammirare fiori in grado di non appassire mai e che, di tutto questo, nulla sarei riuscita a fare se fossi rimasta isolata. Non saltare alle conclusioni, non c’entra niente il ragazzo. È a te che sto scrivendo. Ancora equivochi, scommetto. Ti sbagli, non annuncio il ritorno. In fondo non sono mai stata così bene come in mezzo a queste nebbie, a questa gente che non aspira affatto a scomparire. Capisci allora a cosa sto puntando? Penso di sì, sei lento ma poi arrivi. E dai, so che ti manco. Di tempo ne è passato pure troppo e altro non ne dovrà passare inutilmente. Quindi, stavolta sii ubbidiente: molla tutto così come ti trovi, prendi un treno, un aereo, chiedi un passaggio a un’astronave, ma sbrigati a venire qui da me.

Tag: , , , , , , ,

4 Risposte to “In busta chiusa: U come Umore – Ubbidiente – Ufo (con Cartaresistente)”

  1. Pendolante Says:

    A volte è meglio scomparire in due

    "Mi piace"

  2. tramedipensieri Says:

    Complimenti Francesca!
    Sarà arrivato il messaggio?

    "Mi piace"

Lascia un commento