
trascorremmo la vigilia di natale su un taxi, viaggiando da un punto all’altro. eravamo ubriachi e non ci domandavamo quando sarebbe finito il viaggio. sbirciando dal lunotto posteriore vedevamo svanire il paesaggio: da evanescente diventava vano, come gli sforzi che ci avevano condotti a quel punto. era di fatto un viaggio per prendere le distanze, misuravamo le tappe via via che le raggiungevamo. spariti i toni del tramonto, a poco a poco, dal buio, davanti a noi comparve qualche luce. pensando di fermarci per la notte entrammo in un locale dove ci imposero dapprima un pediluvio, quindi calze pulite e scarpe comode, per sederci a un tavolo che non ammetteva errori. ricevemmo inoltre un campanello. una volta seduti, piccoli maggiordomi ne tirarono le corde al collo di ciascuno, ma senza farci male. a quel suono, le portate uscirono dalle nostre stesse maniche, indirizzate verso il centro del piatto da un cameriere seduto sul suo bordo. purè, bacon, pomodori in insalata, tutto fu collocato adeguatamente. del coltello, della forchetta e del cucchiaio potevamo fare l’uso che volevamo. in assenza di costrizioni, provammo a tagliare i piselli, inforcare il purè e arrotolare il bacon attorno al manico del cucchiaio per portarlo dietro l’orecchio, come farebbe un bravo muratore. ma non avevamo fatto i conti con l’assenza di fogli di giornale piegati a berretto sopra le nostre teste. cadde tutto per terra. eravamo maldestri, non appartenevamo al luogo. i camerieri sparecchiarono di corsa, e di corsa aprirono le finestre, chiedendoci di lasciare le calzature sotto al tavolo e di svignarcela in fretta. fuori di lì, scoprimmo che la luna non riusciva a sbucare dietro agli alberi scuri, il taxi non ci aveva aspettati e nessun bambino piangeva, forse per un’eclisse
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