Quando piove

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Quel giorno io c’ero, sì, ma dormivo, oppure scherzavo, amavo, bevevo o mangiavo. Di sicuro non pensavo a lui. A dire il vero non so neanche di preciso che giorno fosse. Troppo tempo era passato, ormai si era fatto un altro anno, era arrivata un’altra stagione.

Il caso ha voluto che giusto stamattina abbia ascoltato una canzone di quelle che stanno bene con la pioggia -ne ho una certa scelta, musica e pioggia generano uno stato mentale che mi piace-. E chissà perché proprio oggi mi è tornato in mente che ascoltando quella canzone una mattina di un paio di anni fa mi è salito su un singhiozzo silenzioso. E che subito dopo avevo scritto questo:

 “Ora, andare per feste a quarant’anni. Insomma. E’ naturale solo nelle grandi città, posti in cui è lecito sentirsi eternamente giovani, se si ha avuto la tenacia di resistere alle lusinghe di una qualsiasi “sistemazione”, alla triade matrimonio-casa-figli, massima aspirazione di uomini e donne finché raggiungono la trentina. Se quindi, superata questa soglia, com’è facile (viste anche le congiunture economiche), ci si è ritrovati senza almeno una delle componenti della triade (i figli, mettiamo), non resterà altro da fare che prendere atto che in una grande città, invece di costringersi ad una vita ritirata per evitare i commenti della “gente”, uno è portato ad aprirsi ai propri simili, a unirsi a tribù di festaioli ad oltranza.

Io non sono tra questi. Sì, ho avuto il buon senso di mantenere dei legami esterni alla famiglia, di non lasciarmi trascinare dalla routine, ma le feste proprio no. Prima la famiglia. Sempre prima la famiglia. Dico davvero, sempre.

– Ma non eri tu che hai passato i migliori anni “vivendo e godendo” come la farfalla della Vispa Teresa?

– Sì, ma adesso ho una famiglia.

Eppure, che mal di piedi solo a pensarci. Le feste a casa mia, quelle danzanti, con la palla con gli specchietti (avranno scoperto il suo nome dopo tanti anni?) appesa, le luci psichedeliche subito spente durante i lenti, sono iniziate che avevo appena compiuto tredici anni e se non ricordo male, sono continuate fino a oltre la trentina. E le feste in case altrui, o in posti più o meno decenti, i quattro salti nei locali dove c’era musica dal vivo il sabato sera, spesso al Frontiera, quello sul GRA, che adesso non c’è più. Quanto mi è sempre piaciuto ballare. Anche sette anni di danza Jazz ci ho sprecato.

Seguire il mio buon senso non è stato del tutto inutile. Esco almeno tre o quattro volte l’anno con un gruppo di amiche svitate e represse come me, ceniamo insieme e urlacchiamo sfrenatamente, ubriache, garrule e liberate, finché, in genere, i vicini di tavolo non ci zittiscono con ferocia e, secondo me, sotto sotto (ma non troppo), con una bella dose di invidia.

E poi ho mantenuto i legami con quel gruppo di fuori sede dell’università, sì, quelli dai quali andavo a passare pomeriggi di studio e cazzeggio nell’appartamentino sulla Tiburtina. Tutti più grandi di me, più scafati, più bravi, più fighi, più tutto. C’era anche la cannabis in balcone, mi pare, o forse mi confondo con altri amici. Di sicuro, benché maschietti, sapevano cucinare davvero bene.

Ancora ricordo il mio stupore di fronte alla preparazione di una semplice pasta alle cime di rapa. Io, a ventidue anni, al massimo, sapevo fare la torta al cioccolato con la farina additivata della Buitoni.

Lisandro apparteneva a un’altra classe, un altro livello culturale. Quando eravamo in giro con Smeralda a far rilievi nel cimitero di Ceri (era il novantadue, mi pare), lui ci sosteneva con galanteria mentre ci arrampicavamo di tomba in tomba, per verificare la lunghezza dei colombari e misurare le dimensioni dei coppi di copertura. Controllato come tutti i marchigiani, era capace di uscite esilaranti pronunciate con grande aplomb. Forse abbiamo scattato più foto di scorpioni e altri insetti, di pose plastiche con il distanziometro laser, di me e Smeralda che accettiamo da Lisandro omaggi floreali e ancora pose plastiche accanto a statue e cornicioni pericolanti, che quelle necessarie a completare e documentare rilievi e trilaterazioni.

Quante mattine abbiamo affrontato chilometri di strada tutta curve e siamo tornati a verificare un particolare della decrepita chiesetta solo perché poi ce ne saremmo andati a pranzo nella trattoriola del borgo, adocchiata la volta precedente.

In quel periodo la vita mi veniva proprio difficile, questione di carattere. Mi infilavo in un pasticcio sentimentale dietro l’altro.

Ma con Lisandro, Smeralda e gli altri di via Ottoboni stavo bene. Ero di nuovo la più piccola, esonerata da grandi decisioni, totalmente conquistata dalla leggerezza che aleggiava in quel microcosmo. Ah, no. I ragazzi di via Ottoboni non li ho mai persi di vista.

Per loro mi sono concessa degli strappi alla regola. Non sono mai mancata alle loro feste, una volta che, ormai stimati professionisti, avevano ampliato il giro includendo anche i corsisti a cui insegnavano e le belle studentesse che venivano a fare pratica da loro, le fidanzate, qualche moglie, gli amici degli amici e, senza alcun problema, gli immancabili imbucati. Ci ho visto anche cani e bambini nelle nottate sulla terrazza di via Merulana, dove non manca mai buon cibo, buon vino e un buon deejay.

Questa volta è stata è stata bellissima, forse la migliore festa che io ricordi, tra le ultime a cui ho partecipato.

Il disagio di dover parcheggiare lontano si supera subito, trovando il portone aperto che ti invita ad entrare e la musica che ti guida verso l’alto. Il percorso ti risucchia alla meta e, visto che l’ascensore non è raccomandabile, sali di piano in piano con la prospettiva che si restringe mentre affronti i gradini alti e stretti che terminano tra anguste pareti bianche ed un basso soffitto. Intanto incroci gente di ogni età che sale e scende. Chi è vestito come per un gala, chi è appena uscito scapigliato dal letto dell’amore, jeans sbottonati e maglietta al contrario. Ed ecco che quel risucchio ti fa sfociare all’improvviso nell’ampio spazio aperto della terrazza, dove esplode una magia fatta di musica, luci, colori e gente in vorticoso movimento.

Ormai è diventato un appuntamento di una certa dimensione, forse è arrivata l’ora di invadere il tetto di qualche vicino, purché non sia quello del rompiballe che manda ogni volta i Carabinieri a mezzanotte.

Ho portato due amiche con me. Altre due che non vedevano l’ora di ballare. Ottimo il banchetto e la varietà delle bevande, poi l’esibizione del tango milongueiro (un personaggio il tipo che lo ha presentato, brandendo il microfono con forte accento inglese). Coppie che sbucavano dal buio e si incrociavano con altre, fiamme di un falò caldo e ondeggiante.

Infine, dare il via alle danze è stato per me, al solito, un rito liberatorio. Sempre col massimo rispetto per la famiglia, godere delle situazioni è una mia specialità.

Ero certa del buon impatto su Ippolita e Ermia, visto il mantra recitato in uscita: “bella musica, bella festa, bella musica, bella festa, bella musica, bella festa, …”. Per loro, ragazze sole con figli a carico, dall’esistenza spesso un po’ più agra che dolce, vedere Oberon e Titania tanto affiatati eppure liberi insieme, che hanno confermato di appartenere al mondo degli elfi di qualche leggenda irlandese, è stata una visione rivelatoria delle potenzialità insondate della vita di coppia.

Quanto sarà? Una quindicina d’anni che ci si ritrova ogni anno per sorseggiare sangria, scambiare quattro chiacchiere e darci a danze spudorate come se fossimo ancora ragazzini? Ho perso il conto. Le prime volte sono lontane, ma mi torna a fior di pelle la sensazione di essere ormai diventati “grandi”. Iniziavamo a seguire strade appena abbozzate ma già definite nella meta. Allora il futuro mi appariva annebbiato, ma andavo incontro al crocevia di quegli eventi che portavano nel vivo del gioco. Ne provavo attrazione e terrore al tempo stesso.

Accanto ai balli sulla terrazza ci sono stati pranzi universitari, compleanni, lauree e matrimoni da festeggiare, le annose storie d’amore di ciascuno che si sfilacciavano tormentosamente e ne nascondevamo la sofferenza mostrando una leggerezza nell’andare avanti che è diventata negli anni la prima impressione che il mondo si fa di noi.

Un pensiero ci sta sempre, calpestando quel pavimento, a quando, contemporaneamente a Lisandro, avevo risposto all’annuncio di Smeralda in bacheca, dal quale erano partiti mesi di misurazioni, scampagnate e puro turismo in terra etrusca, ma anche lunghe serate al tecnigrafo, noiose revisioni in facoltà e riunioni tra di noi che, più che la causa, costituivano il pretesto per memorabili pasti luculliani, sempre grazie all’abilità di Lisandro ai fornelli.

Smeralda era idealista e sognatrice, Lisandro con quella faccia sempre allegra, mi lasciava senza fiato dalle risate. A poco a poco si faceva conoscenza con gli altri coinquilini. Tra tutti Demetrio, zazzera-bionda-e-piglio-sportivo, che si svegliava tardi e si presentava a noi, che ormai eravamo nel pieno delle attività, con gli occhi pesti, a metà mattina la barba sfatta e monosillabi che, imparammo a capire, erano poi dovuti più al carattere che al tardivo risveglio. Scoprimmo, io e Smeralda, persone dai modi sobri e gentili, la battuta sottile, i valori radicati e la volontà di riuscire nella vita, che accoglievano per partito preso, senza badare agli stereotipi.

A volte mi affacciavo, non attesa, tra una meta e un’altra, carica di libri, rotoli di lucido e attrezzature, andavo a respirare aria più fresca, in quell’appartamento conficcato nel traffico velenoso della Tiburtina. Smeralda dai capelli rossi e la copiosa mantecatura di efelidi rosate faceva comunella con Lisandro. Erano più vicini d’età, mentre io avevo un ruolo da mascotte ed era uno spasso sentirli battibeccare. Siamo arrivati all’esame senza sforzo, riposati ed arricchiti e abbiamo anche incassato un onorevole ventotto.

Che tipo di amicizia si sia fatta la nostra, non lo so dire. Non una morbosa che richiede cure costanti da giardiniere per mantenerla presentabile, né un nucleo unito e chiuso a difesa da tutto il resto. So che resiste al tempo, ed è un bel pregio perché il tempo allontana e a questa età forse, più che mai, è duro riconoscerlo.

Ciascuno ha seguito i suoi percorsi. Loro, con il progetto dello studio fondato insieme ad Filostrato, sono stati bravissimi a farlo decollare dall’inizio e a mantenersi accessibili ed umani, mentre andavano creando storie, relazioni e anche famiglie che quasi per tutti resistono al passare delle stagioni. Col tempo, nelle occasioni di ritrovo, le conversazioni si sono fatte più profonde e complesse. Una metamorfosi che è stato bello ed utile condividere almeno in parte.

Chi ne parlava più o meno apertamente ad un certo punto è stato travolto dalla monogamia. Altri, poligami impenitenti, hanno continuato a tenere il punto. Di Lisandro avevo saputo che era stato il più veloce, una donna, una figlia e l’allontanamento da Roma, che me ne restituivano un’immagine cresciuta, non più combaciante con quella, per me fissata per sempre, del ragazzo che solo pochi anni prima se ne andava, mi pareva, a cuor leggero all’arrembaggio dell’esistenza.

Ci siamo rivisti qualche volta nelle sere settembrine durante quelle feste che, anno dopo anno, sono diventate per me quasi l’unica occasione di ritrovarli tutti faccia a faccia, lontani dai pensieri di ogni giorno. A posteriori, ho pensato che sarebbe stato il caso di cercare meglio cosa si nascondeva nel non detto di quei ritrovi.

Nessuno lo va sbandierando ma ora, nel mezzo del cammin, siamo fin troppo consapevoli che la vita è impegnativa, al punto che a volte il peso sembra davvero insopportabile. E tutti, prima o poi, parliamo di dare un taglio. E vagheggiamo di viaggi, di cambi di lavoro, residenza, affetti e se capita ci confrontiamo su questo argomento, cercando una via d’uscita.

Talvolta arriva la notizia che qualcuno lo ha fatto davvero, che ha cambiato vita. Ma è una minoranza che sotto sotto invidiamo, mentre ci rendiamo conto del coraggio che ci vuole. A restare e cercare di far fronte a una città che respinge, ai legami che inchiodano, ai genitori che invecchiano e richiedono assistenza, alle malattie e agli incidenti che rendono sempre meno immortali, alle innumerevoli scadenze ed incombenze che riempiono ogni istante e danno l’impressione che non si riesca neanche a fermarsi un attimo a riprender fiato. Ma, per quanto sia difficile, non ci si può frenare dal continuare a vivere tutto questo, avendo, soprattutto, la coscienza che ci sia qualcosa di maledettamente bello e degno di essere esplorato testardamente e continuamente, anche nelle condizioni più avverse.

L’altra sera ero così contenta di essere tornata ancora su quella terrazza, per la bolla di leggerezza in cui finalmente galleggiavo, che, quando ho chiesto se per caso avrei trovato Lisandro in giro, ho solo pensato che Demetrio non avesse sentito bene la domanda e l’ho riformulata a voce più alta.

E poi ho capito all’improvviso. Dai suoi occhi. All’improvviso, in quel contesto, mi è arrivata una porta in faccia. Lisandro non era lì e non era in nessun luogo, perché, semplicemente, Lisandro, già da un anno e mezzo non era più. Non mi aveva detto nulla Demetrio, a me come ad altri amici che ancora non sanno, glie n’è mancato il coraggio.

La bambina. La più tragica prova di uno sfinimento esistenziale senza ritorno: l’aver organizzato tutto nei dettagli, per il dopo, senza riuscire a curarsi del dolore e del danno causato a quella figlia, a detta di tutti amatissima.

E’ stato surreale proseguire la serata, tentando, a suon di Morellino di Scansano, di tirarmi su. Nulla intorno dava l’impressione di un lutto. Non gli amici, non la sua ex fidanzata storica alla quale non ho avuto il coraggio di rivolgere uno sguardo. Tutto come sempre, solo non c’era Lisandro. Era già passato un anno e mezzo ed il dolore si era acquattato in tutti loro restando un tormento silente e permanente.

Dopo quella sera sono tornata a rendermene conto, a farmi raccontare da Demetrio come si fa ad accettare una cosa del genere da parte di un amico. Nel lampo di un aperitivo abbiamo parlato un po’ di lui, ma con pudore, e tanto di noi, la strada già percorsa e i sogni nel cassetto. Continuo a non capire, non ci riuscirò mai. Giuro però che non giudico Lisandro, è molto più pressante il dispiacere di sapere quanto possa aver sofferto senza parlarne con nessuno. Ogni tanto mi assale la tristezza e uno smarrimento che mi fa sentire vulnerabile. Nascondo qualche lacrima senza sapere cosa fare, respiro a fondo e mi rimetto in marcia.

La sera stessa invece, quella della festa, è stato difficile credere da subito a ciò che avevo sentito. Ho abbracciato le mie amiche ed ho ballato tanto, e ho riso di cuore, assaporando l’aria di quella bellissima e tiepida notte di settembre, con consapevolezza e ancora più voglia di vivere, almeno quanta ce n’era tanti anni fa.

Come allora, percepivo accanto la contagiosa allegria di Lisandro, i suoi occhi brillanti, il suo sorriso. E giurerei di averlo scorto nella folla, seduto in ombra, il calice alzato, che mi salutava.”

 

Adesso, qualcosa è ancora impercettibilmente cambiato. La vita avanza quasi sempre per piccoli scarti. Esco a divertirmi un po’ più spesso di un paio d’anno fa, i figli crescono. Certe cose invece, restano sempre uguali, come l’effetto di una canzone che si mescola alla pioggia.

 

 

Putesse essere allero – Pino Daniele

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