Sono morta. Come tanti prima di me. Allora? Dov’è la novità? Che noia. Dove, Quando, le solite domande. Cosa ho pensato alla fine? Ti sorprenderai a sentirlo: non alle gioie perdute, non agli affetti, non a un trauma, a un perdono, né a qualcosa di trascendentale. L’ultimo pensiero è svolazzato via ricordando un amico che non ho più avuto modo di sentire. Un rimpianto? Nemmeno. Solo un ricordo. Che ora è già svanito, tra l’altro.
Un pomeriggio, ero con Narciso e ci dicevamo (non ricordo più quale di noi all’altro) Che coincidenza. E il fatto in questione era un ragazzo, con i capelli rossi e le lentiggini, uno che un tempo portava grandi occhiali quadrati e forse anche l’apparecchio -dettaglio plausibile, per quanto ora non mi ricordi bene- e che all’epoca non era ancora un uomo, bensì un bambino. Uno di quarta o quinta, non più piccolo. Perché io di quella classe ero entrata a far parte tardi, dopo tre salti a mo’ di trapezista in altre diverse scuole elementari.
Quando eravamo compagnetti, io a Boccadoro, non lo consideravo tanto. Lui disse in seguito che invece mi ricordava bene perché ero quella che si inventava i giochi. Fantastici. Ed era vero: la prima a perdersi nelle follie inventate ero io. Durante la ricreazione li trascinavo tutti, -intendo dire tutti quelli che non giocavano a elastico o a campana o a mondo o a stella o a nascondino né si divertivano a schiacciare le file di processionarie con il piede- dentro avventure strane. Ne dico una: C’era un pino, un albero alto, dal tronco grande, due di noi non si toccavano le mani ad abbracciarlo. Uno dei tanti, in quel giardino, ma in posizione un po’ appartata, nell’angolo tra le due siepi fitte, di confine con la strada – una strada poco frequentata, i pochi i passanti e le auto non disturbavano quei giochi-. Le siepi nascondevano un muretto basso, sul quale ci si sedeva, a volte, simulando covi o tane o ci si nascondevano tesori. Quell’albero era ideale, mi accorsi un giorno, per provare a dire “Diamoci la mano” e poi “Chiudiamo gli occhi. Vi porterò in un mondo misterioso” E si afferravano mani graffiate, con unghie sporche, segnate da penne e pennarelli, pelli scure e chiare, mescolando odore di selvaggio e di bambino.
Una mano dentro l’altra, quindi strizzavamo forte gli occhi. “Adesso, concentriamoci e, girando attorno al tronco per tre volte, inizieremo a scendere”. Io, che li conoscevo, stavo di guardia, attraverso due fessure tra le ciglia scoprivo sempre quello spaventato: “Richiudi gli occhi! E non spezzare la catena”, gli dicevo. E dopo poco, si apriva in una botola il terreno. Franava, e scivolavamo insieme dentro a un luogo oscuro (era di giorno e c’era il sole pieno, ma noi ormai eravamo lontani). Ci aggiravamo tra apparizioni di demoni o folletti, recitavamo incantesimi, materializzavamo mostri, fantasmi o caramelle. Ne ridevamo o gridavamo di paura insieme, ma sempre ad occhi chiusi. E quando si approssimava la campanella, li riportavo sopra, al mondo vero. Promettevamo, recitando un nostro giuramento, di non raccontare niente ad anima viva.
Cose così gli ricordavano di me, negli anni, a Boccadoro, al quale nel frattempo erano cresciuti i capelli, ricci, e un po’ scuriti, si era abbassato il timbro di voce e aveva preso a portare lenti a contatto. Ci riconoscemmo subito anche se Narciso non disse niente prima e ci fece ritrovare faccia a faccia, durante un pomeriggio pigro. C’era ombra in quella stanza, e l’umidità e l’odore di chiuso che seguono l’amore. Boccadoro era un signore e non ci fece caso. Per me fu una sorpresa ritrovarlo. Scoprire di aver lasciato un segno positivo dove non immaginavo. Dopo, è stato un amico. Per quello che è durata, ovvero qualche altro anno. Uno dei pochi uomini col quale, all’epoca del Massimo Scompiglio, non ci fu, neanche per un attimo, alcuna confusione di intenzioni.
– Ah, ho capito, era quello Boccadoro?
– No, no, ho fatto confusione. Non ho pensato a lui. E, no: non era quello Boccadoro.
– È chiaro che sei impazzita, ormai.
– È che, demone, non dormo più. Sono arrivata al punto che dico di voler morire. Lo penso, lo dico anche, di notte. Ma non è vero, no. È solo un pensiero vuoto di contenuto. Un pensiero che mi chiama ma che non seguirò.
– Hai dei figli.
– Cazzo, demone, lo so, me lo ricordo. Loro sono tutto per me.
– Allora ci siamo capiti.
– Tu non mi hai capito, invece, come al solito. Vattene via, ho sonno.
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King Crimson – I Talk to the Wind
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