Sting

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La scusa ce l’avevo, ed era buona, ma è così che va: devo toccare con mano. La settimana scorsa sono andata a trovare Flavio, un amico dei tempi dell’adolescenza, e Flavio fa il dentista. Volevo scoprire cosa ne è della sua vita adulta. Mi ha fatto accomodare sul lettino e ha chiesto: E come va? Gli ho detto: Così e cosà, le cose cambiano, i tempi passano, e poi gli ho chiesto io: Ma questi denti, vorrei tenermeli stretti, che cosa posso fare? Mi ha risposto, anzi, no. Prima mi ha guardato, poi mi ha risposto, ancora immerso in quello sguardo lungo: Amica mia, tu sei la più piccola del gruppo, è vero. Io l’ho interrotto, Davvero sono la più piccola? Sì, ha detto. E ne era così sicuro, che in un secondo ho concepito il simile pensiero: lui e sua moglie Pimpa, magari la sera a letto, parlano ancora di noi come se esistesse un gruppo, come se io e Pimpa avessimo ancora quindici anni, o meglio, lei quindici e io solo quattordici. Eh già. Sì che ero la più piccola. Ma com’è che dopo lauree, specializzazioni, figli, comunioni, diplomi e matrimoni, e le vacanze al mare e in montagna esibite foto per foto su facebook, e Pimpa che non invecchia mai e Flavio sempre più pacioccone, gli anni che trascorrono senza voler sapere più niente gli uni degli altri (voler sapere, ho detto, perché alzare il telefono sarebbe cosa da niente, però la vita tira forte, trascina i nostri giorni, meglio lasciar passare, che magari qualcuno è pure morto nel frattempo e che tristezza saperlo), com’è che questi due hanno ancora voglia di parlare di “noi”, una ventina e passa di persone, come se il tempo si fosse fermato all’epoca del loro primo bacio? Ma come fanno, che cosa immaginano di noi che siamo tanto lontani da loro due in simbiosi, come fanno a immaginarci ancora in gruppo, tutti insieme? Io, che qualcosa so, perché ho preso il telefono e ho chiamato, e sono salita in macchina e sono andata, e avrei voluto tanto che il gruppo fosse ancora lì, perché ne avrei bisogno oggi come ne avevo tanto bisogno quando ero una ragazzina, e andando e toccando con mano, ho scoperto la diaspora dei fratelli, il segno dei tremendi scherzi del destino, scavato a fondo nella terra che separerà per sempre gli uni dagli altri, al gruppo, mi duole dirlo, io non ci credo più. Esiste solo l’uno a uno. Sei la più piccola, mi ha risposto, è vero. Ma anche tu ormai fai i conti con l’età. Dunque non la trascura, l’età, dunque lui sa, eppure pensa al gruppo. Devi imparare ad allentare la morsa, sul serio, pensa di più a te stessa, ha detto, con convinzione. Se vuoi tenerli stretti, i denti, tu cerca di non stringerli. If you love sombebody, set them free, praticamente, ha detto. E sulle sue parole il volume della musica si è alzato sovrastando ogni altro rumore, e io ho preso coscienza di essere davvero la più piccola, eterea, minuscola componente di un grande vuoto tappezzato di ricordi inutili, e Flavio in quel momento era il più grande, il massimo custode del nostro ricordo rarefatto e adamantino. Così, mi sono lasciata andare a corpo morto, ho aperto la mia bocca, l’ho lasciato entrare. Mi ha cavato un dente.

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