Ingiustizie e prevaricazioni? Bestie nere. Così i loro prodotti: disordine e maleducazione, sconfinamenti nella libertà altrui. In loro presenza trascendo, reagisco, mi infiammo. Disarticolo gesti e linguaggio, finendo in disordine e malacreanza io stessa.
Ci vuole indulgenza. Riguardo al disordine, stabilire confini e rispettarli (ora che mi ricordo, questa conversazione è già avvenuta, altra epoca e altro continente. Allora prendemmo la via del disordine, e poi… ma non importa). Parlerò però, oggi, qui, della scortesia.
Che fastidio la strafottenza per la sensibilità altrui, le imposizioni di sé, e l’imposizione del rumore in particolare. Il vociare, la musica alta, le suonerie dei telefoni, i discorsi molesti e altre afflizioni… Sapete, uno studio recente stabilisce che la misofonia ha cause neurobiologiche. Io l’ho scoperto qualche giorno fa. Nemmeno sapevo che esistesse, la misofonia, ma oramai è lampante che ne soffra.
Più di tutti, il fischio mi risulta un suono “trigger”. Quando qualcuno si mette a fischiettare, scatena una reazione incontrollabile. Mi viene da domandargli: “Ne hai per molto?” Divento maleducata. Coi suoni trigger accade ciò che dicono gli scienziati: mi agito, non posso più pensare, tachicardia alle stelle. Mi fanno l’effetto del piffero di Hamelin, con la differenza che correrei senz’altro dietro al magico musicista, ma solo per suonargliele io stessa.
Ne ho la certezza: la misofonia ha condizionato la mia vita. Giocoforza, sono tornata a ripensare – ahimé, da quanto non lo facevo- al tempo della mia Africa.
Ero una giovanissima volontaria, da poco in Kenia per un primo lavoro non pagato. Osservatrice di una popolazione che attuava antichi sodalizi uomo-animale.
Una mattina di maggio, io e Wadu, uno del posto, il mio coordinatore per quella ricerca, ci incamminammo fianco a fianco verso i campi sotto una pioggia battente. La pioggia diventò presto una colata, e quindi un muro d’acqua impenetrabile. Per noi non ci fu modo di proseguire.
Aspettammo al riparo del porticato di una casa colonica, quella in fondo al villaggio, che una volta era stata la residenza del Governatore e ora cadeva in rovina, col tetto sfondato già in mezzo al grande ingresso. Oltre il portone, socchiudendo gli occhi, a farci caso, sembrava quasi il Pantheon.
Ci affacciammo appena, per assicurarci di non doverci guardare le spalle da qualcuno che ci si fosse rifugiato: una colonna d’acqua veniva giù in uno scroscio di luce sul pavimento buio. L’aveva reso un’enorme bagnarola su cui galleggiavano i pochi mobili rimasti: una poltrona con la stoffa sdrucita, l’appendiabiti, un tavolino ribaltato a gambe all’aria. Tutto puzzava di muffa al quadrato. Però, che fascino.
Wadu stava chiudendo il portone e non me n’ero neanche accorta. Mi sono ritrovata col naso schiacciato sopra la sua manica, per evitarmi una capocciata.
L’atmosfera era come liquefatta, eravamo zuppi fino al midollo.
Lasciai la testa appoggiata sul braccio del mio accompagnatore. Lui si era fatto cadere a sua volta contro una delle false colonne che ornavano l’ingresso della casa.
A poco a poco il nostro dialogare sfociò in una discussione appassionata. Difficile non farsi sovrastare dal rombo della pioggia. Un nulla grigioargento ci bloccava entro i confini del porticato.
Wadu mi piaceva. Me n’ero accorta subito, ma preferivo lasciare fare al caso. Se doveva succedere qualcosa tra di noi, sarebbe successo. Inutile metterci altro impegno, era già abbastanza faticoso sopravvivere al clima.
Naa, naa, na. – Stava dicendo. – Non sono proprio un maniaco dell’ordine, ma, confini o no, nel disordine non mi ci ritrovo proprio. Nel disordine altrui, intendo- fece, ammiccando.
Neanche io, credimi. Però non è sempre necessario… voglio dire… – La testa si era come distaccata all’improvviso dal discorso. Non riuscivo ad andare avanti. Wadu ora mi stava guardando allegramente dall’alto in basso e fischiettava.
Cosa stavo dicendo? L’ordine, sì. Non esiste una soglia di tolleranza all’ordine valida per tutti, credo.
Giusto!
Lo disse battendosi una mano sulla coscia, così vigorosamente che, per lo scossone, dovetti spostarmi dall’appoggio solido del suo corpo. Cosa che, devo ammetterlo, mi dispiacque.
Tornai ad accoccolarmi e lui, dopo la breve pausa in cui mi sfiorò appena con lo sguardo, come per controllare di avermi ancora saldamente in pugno, riprese:
In genere, la mia soglia di tolleranza verso il disordine degli altri non è molto alta. Però, ok, anche a me quelli che esagerano in pignoleria…
Lo guardai gesticolare con le mani, come un tagliare i bordi di un cubo immaginario, ma non riuscivo a seguirlo. Aveva accompagnato il gesto con dei fischi acuti in sequenza, modulati tra i denti.
Scossi il capo con forza, facendo un mezzo passo lontano dal raggio d’azione di quel suono.
Ero stordita, nemmeno mi avesse suonato una tromba direttamente dentro il timpano. La conoscevo quella situazione. Di lì a poco avrei iniziato a odiarlo.
Wadu, il bel sorriso schietto, tutto solo per me, sotto occhi sfuggenti, color carbone-e-brace, all’improvviso sembrava una minaccia.
Ehi, – cambiando espressione, fischiettò ancora – tutto bene?
Per rispondergli dovetti farmi forza.
Scusa, mi sto sentendo un po’ strana.
Capii di avergli appena fatto credere quello che, in fondo, era ciò che provavo per lui. Ma non in quel momento, di sicuro.
Mi tese una mano. Tentennai. Guardai il suo viso, dal basso verso l’alto. Guardai ancora la sua mano. Emisi un sospiro corto, e poi gli lasciai prendere la mia.
La pioggia stava diminuendo, il nulla si diradava. Tornavano a sbucare i contorni del giardino. Alcuni uccelli espressero la loro gioia cinguettando. Si chiamano Indicatori golanera, Wadu lavorava con loro. Sì, con loro. Sono uccelli simbiotici, scambiano con gli umani dei fischiettii durante la ricerca, utile a entrambi, di miele. Gli uccelli guidano gli uomini agli alveari e ottengono un favo in cambio del favore.
Wadu, senza nemmeno tentare di riprendere il discorso, mi tirò a sé. Sentii come reale un suono di tamburi in lontananza. Lui mi guardava da vicino, invece. Mica osavo fiatare, tesa tra due estremi come mi ritrovavo. Temevo di sbagliare a comportarmi.
Le mie ciglia, inzuppate di pioggia, avevano iniziato a tremolare mentre si avvicinavano alle sue. Vibravano tutte insieme, le nostre ciglia, era una sensazione terribile. Impossibile sfuggire, quella vibrazione somigliava a una specie di richiamo primitivo. Certo non il più forte.
Spioveva un poco e un piccolo golanera si venne a posare accanto a noi sotto il porticato. L’uccello cinguettò e Wadu gli rispose, modulando un fischio interminabile sopra la mia faccia. Sono sicura che in cuor suo pensasse di rassicurarmi, come a dire: Ormai sei nel mio mondo di vibrazioni, morbide piume e miele, lasciati pure andare.
Invece, gli rilasciai una manata sotto al mento, talmente inaspettata da fargli mordere la lingua.
Rimase a bocca aperta. Un filo rosa scorreva dal labbro inferiore e andava a confondersi col luccichio misto a sudore e umido della sua pelle. Wadu era così bello, in quel momento, decisamente molto più incredulo che offeso. Per continuare a non saper che fare, mi misi a braccia conserte, gli voltai le spalle e presi a insultare me stessa. Avevo le interiora rivoltate ma, almeno, lui aveva smesso di fischiare.
Due giorni dopo volavo all’indietro sui nostri due continenti, tirandomi appresso una valigia messa insieme alla rinfusa, rigonfia di un magone enorme che sarebbe stato duro da smaltire.
Gli amici di qui mi chiamano, scherzando, Sostenuta. Arriccio il naso, sbuffo e tiro dritto, se un uomo mi fischia dietro. Esco sbattendo la porta, se una sala diventa troppo rumorosa. Inneggio a Erode, sul pianto di un bambino. Ho sempre pensato di peccare mio malgrado di arroganza, di essere, in fondo in fondo, nata antipatica. Da oggi, però, mi assolvo, penso sia chiaro. E chiedo a voi che leggete, anzi, vi prego: avvicinatevi con molta gentilezza.
Fastidio testo e illustrazione di Francesca Perinelli su Cartaresistente
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