di Francesca Perinelli
Pochi altri fatti piegano atti di volontà quanto quella nuotata che spinge al corpo a corpo il corpo con sé stesso. Fosse per lui, terrebbe il tempo solito per darsi a contemplare l’incanto delle leve in moto armonico, il gioco degli spruzzi, il fondale che scorre, il ritmico fragore dell’acqua nelle orecchie. Ma non dura e si sdoppia, lo squassa lo sconcerto della resa, la sorpresa di non contare più niente in mare aperto, inframmezzato ai flutti, oppure sperso nel mezzo, quasi svenuto in transito lungo una vasca estesa. Un attimo è quello che fa mancare il fiato. Ogni certezza cede e lei, tiepida culla richiusa e resa con un rimbalzo d’onda camera ardente, al nuotatore ora nemica ed estranea, sottrae gli ultimi aliti agli alveoli, scombina il fato e riporta la vista alla fiducia; rende impellente un supplemento d’aria, per non restare totalmente senza, porta allo sforzo dell’apertura massima i polmoni e tende e prova il fragile costato, contro la fame d’aria e la sua urgenza. Qui ecco la scelta tra abbandonarsi e osare, provando nuove branchie sconosciute, tagliate nelle pieghe dell’ “io sono”, rivedendo i rapporti tra le parti, incamerando e non lasciando andare, padroni nuovamente del respiro, regolato secondo l’occorrenza, portato a un ritmo che ossigeni l’ “io voglio”. Così l’atto riunisce le anime e le intese, vince la tentazione della resa e riesce a riacciuffare il suo bottino. E per ogni testardo che non cede Cheever si risolleva, scansa l’ineluttabile destino e torna a godere, eterno, la nuotata.