E che diavolo, in questa città ormai i pedoni non contano più niente. Le strade sono già fatte per le auto mentre i marciapiedi non sono cosa, tra ciclisti imbranati come me i primi giorni di pieghevole e cani… Ho appena assistito a una zuffa che ha bloccato il transito pedonale sul marciapiede dove camminavo. Mi meraviglio ancora, ma non dovrei, di quanta gente riempia piccoli appartamenti di abitanti non esclusivamente umani. Lasciamo stare gatti, uccelli e pesci (le tartarughe no, ci farò un post-apposta, quelle non le giustifico), ma i cani.
Capiamoci: a me dei cani non piace soltanto il fatto che quando stanno in casa poi ogni cosa, abiti, tappeti, divani, pantofole e lenzuola, puzza di cane. Per il resto mi stanno simpatici. Prediligo quelli di taglia grande, magari a pelo corto ma è meglio che non lo dica in giro: potrei ritrovarmene uno quando torno dal lavoro, seduto a tavola col tovagliolo al collo. L’aria che tira è quella. Di cani raccolti in giro, come Jack , in famiglia ne abbiamo avuti molti. Tra questi c’era Pippi, una bionda dal pelo corto e le orecchie dritte, una spiccata attitudine alla guardia e molto, molto fedele. Dev’essere stato per questa rettitudine che una mattina è rimasta sdraiata in terra, aveva solo sei anni, forse avvelenata da qualche losco tipo che pensò bene di togliere di mezzo la guardiana, non riuscendo a varcare le nostre mura in altro modo.
L’odore non è il primo motivo per cui non c’è un cane in casa, è che questi animali sanno entrare così in sintonia con chi li ospita che quando se ne vanno ti sembra di aver perso qualcuno di famiglia. E di sofferenze in agguato ce ne sono così tante che ora, per puro egoismo è vero, non ho voglia di aggiungerne potenzialmente altre. Se vivessi in una roulotte, dove, vaneggiando, talvolta mi capita di dire che sarebbe meglio stare (meno “roba” = meno manutenzione = più libertà), magari mi porterei dietro anche uno zoo, e probabilmente sarei io ad adattarmi agli animali e non viceversa. Magari, il giorno che morissi, loro mangerebbero amorevolmente la mia carcassa, celebrando così il necessario rito funebre per ritornare il giorno dopo alla normalità animale.
Quando abbiamo preso quella bionda era già incinta (ci sfornò dopo pochi giorni 12 cuccioli), ma non lo capimmo subito. Eppure, aveva certe mammelle gonfie e pendule che noi più piccoli l’abbiamo battezzata “Pippi tette lunghe”. Per anni quel nome non ha significato altro che il ricordo di un cane, finché negli ultimi tempi le quattro mura domestiche non sono diventate “casa”, riempite dal caos e dalle grida dei bambini e quindi ho detto addio ai sogni di roulotte, e bentornata a quella dentona rossa, piatta e matta di Pippi Calzelunghe. Chi se la ricordava? Che poi, quando ero bambina io, di televisione se ne guardava ben poca. Forse avrò visto una o due puntate, non di più. E adesso, che sorpresa. Innanzitutto: la beata solitudine di lei (in compagnia di topo, scimmia e cavallo domestici) nella baraonda di Villa Villacolle. Quella è grosso modo l’idea che ho da sempre della semplicità nordica, di quei Paesi col PIL più alto del pianeta. E poi c’era questo padre, un pirata vero e proprio, al quale consentiva di andare e ritornare e che ogni tanto la portava con sé in qualche avventura. Che coppia. Simile, mi viene in mente, a una che conoscevo tanti anni fa.
Lei, che voleva il mondo non proprio vicino a sé, ma alla distanza giusta per potergli prendere le misure e confezionarsi a poco a poco l’abito adatto per poterlo frequentare. Che insieme a lui sarebbe andata in cima all’universo, l’avevano immaginato tante volte. Lui, che la voleva accanto per scappare e andare via per mare, verso quei posti dove il sole d’estate non se ne va mai e illumina di taglio il sogno di una simbiosi inquieta, di loro uniti insieme sempre e ovunque. Intenti a spingersi ogni giorno un po’ più in là, lontano da ogni cosa e da ogni persona, così, annegati per sempre in quella grande luce. Pippi, chiamiamola così, al pensiero che sarebbero seguiti mesi anche di gran buio, iniziò a provare una paura folle, e a sentirsi soffocare all’idea di realizzare quel progetto. Per quei due il richiamo di Villa Villacolle fu la sirena fatale. Si separarono e non si ritrovarono mai più. Salvo voltarsi indietro di tanto in tanto simultaneamente e accorgersi di non avere mai guardato lo stesso orizzonte.
Così è per ciascuno: dietro le nostre spalle, la strada già percorsa disegna un orizzonte per me, ma non è quello che stai guardando tu che di strada ne hai percorsa un’altra e sul passato hai una diversa prospettiva. Quella collina che per me sta a destra del fiume, per te potrebbe essere nascosta da un salice che io invece vedo lontano, dietro il casolare. A guardarlo frontalmente, l’orizzonte è altrettanto diverso per ogni persona. Ma la speranza e l’utopia insieme, è quella che, affiancati, la strada da percorrere sarà la stessa.
Proprio l’altra sera ho pensato a quei due ragazzi, quando ho visto quel programma, dove gli ospiti declamano i loro sensi alle parole. C’era un signore che parlava di Orizzonte, Salvatore Settis, intellettuale di valore, di mestiere professore, paladino del paesaggio in nome della Costituzione e viceversa. L’ho sentito patire il rimpianto per il tempo andato, dove “l’orizzonte si era […] formato nei secoli, sotto il segno della bellezza, dell’armonia, del gusto di vivere, dell’agricoltura di qualità. Valori che erano scontati una volta. In un equilibrio miracoloso fra natura e cultura” e ho avuto un dubbio, di che parlava? Nemmeno io, cresciuta negli anni settanta, ricordo il paesaggio tratteggiato da Settis. Ne ho nella memoria un altro, già più cementificato, meno “naturale” nel senso romantico del termine.
E poi aggiungeva di voler “puntare alle generazioni future”, “ragionare [sul futuro] in termini di utilità sociale”. Bene, e allora abbandoniamolo una volta per tutte questo ritorno al passato, che ci intralcia. Perché la Costituzione “diventi una concreta agenda della politica”, come propone, bisogna guardare avanti veramente e cercare soluzioni di compromesso, pazienza per il termine, per il bene di tutti. In Italia, nel ’60 erano circa cinquanta milioni, nel ’70 cinquantaquattro e oggi c’è un quinto di popolazione in più. Opporsi al tempo che avanza non basta, siamo parte dello stesso schieramento, Settis, vale la pena fare un altro passo avanti.
Pensiamo pure a radere al suolo le costruzioni brutte e inutili (è vero, sono troppe e se ne avvantaggiano in pochi), e cerchiamo di rimpiazzarle con edifici più funzionali ed integrati con quel che resta del paesaggio. In alcuni Paesi a noi vicini si fa così, senza lasciare campo alla paura di provare nostalgia. Costa anche di meno che ristrutturare. Pensiamo pure a tutelare l’arte e la cultura, nel senso di non limitarsi a mettere lucchetti ma di impegnarsi per una loro maggiore diffusione, e apriamoci alle contaminazioni con la cosiddetta cultura giovanile. Schiudiamo a loro, ai giovani, gli orizzonti di una maggiore consapevolezza non soltanto di ciò che vanno perdendo, quanto delle potenzialità che si trovano di fronte. È questo il valore dell’utopia di Eduardo Galeano, no?
La Pippi canina aveva per compagno Pippo, altro meticcio. Stesso giardino, qualche figlio in comune, diverso senso di appartenenza, lui era tipo da andarsene ogni tanto, voglia di cambiare aria. Poi, se non ritornava in capo a due o tre giorni, dovevamo andare a riacchiapparlo e convincerlo che non era cosa da ripetere. “Ah, Pippo! Ancora”, mi è toccato di pensare quando, ero da sola in casa, mi resi conto che l’aveva rifatto. Ormai era diventato anziano, mezzo cieco e incerto sulle zampe. Di lui era rimasto impigliato solo qualche ciuffo marrone tra le maglie della rete di metallo, la terra sotto scavata alla rinfusa. Pippi e Alfa, la figlia bambocciona, l’unica rimasta e ormai adulta, ne uscivano e rientravano nervose.
Saltai in sella alla mia bici, una bella Bianchi da passeggio, con le ruote che oggi mi sembrano grandissime. Pippo! Gridavo, Pippooo! Mi sgolai quel giorno, ma lui non ritornò. Passarono due mesi e moglie e figlia, puntuali come svizzere ogni giorno alle diciotto uscivano. Non c’era verso di richiudere quel buco sotto la rete, loro lo riaprivano mettendoci una forza disperata. Quando queste fughe ebbero fine, capitò che una sera, giusto così, per capirci meglio di cosa fosse quel biancore in fondo alla parete di una cuccia, saltò fuori un teschio. Di cane. Di Pippo, per la precisione, la dentizione era la sua, quella che mostrava a chi gli metteva in bocca le pillole dopo cena. Le due cagnette lo avevano trovato, spolpato con amore e riportato a casa, fine della storia. L’amore, in fondo, è sempre un po’ cannibale, mi pare.
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