Il post originale è apparso su Cartaresistente il 13 settembre 2013
Il moderno invecchia; il vecchio ritorna di moda.
Leo Longanesi, La sua signora, 1957
Rimpiango il tempo antico dell’Acropoli, fortezza entro la quale giungere al Partenone era storia tortuosa e in apparenza illogica. Epoca in cui l’essere umano ancora si confondeva con il mondo, e ogni cosa viveva, oppure non era (e senza tante altre chiacchiere illusorie). Tempo in cui presero forma le prime astrazioni, i primi tentativi di spiegare l’orrido, il nulla, ciò che ancora oggi è negato alla comprensione umana. Riproducendo nello spazio fisico quelle intuizioni che, di tanto in tanto, colpivano le menti dei filosofi. Anche senza il supporto di formule matematiche, l’uomo sperimentava per primo su di sé, entro una geometria tridimensionale. Forma mentale libera, mossa complessa per fare scacco al re, un’apertura d’ali che si involò portandosi, nei secoli, fino alle coste e ai più remoti confini dei Romani. I due millenni appena terminati hanno covato un virus che, di recente, al passo con l’esplosione demografica, è esploso anch’esso, spargendo intolleranza verso le forme pure dell’immaginazione. E subito siamo qui. Parliamo bocca a orecchio, tanto siamo vicini. Statue senza memoria, sbeccate e sghembe, una accostata all’altra. Di più: incastrate, affette da vizi di forma combacianti e identici. Se ho cercato di smuovere la mia posizione, ho posto le nuove istanze seguendo modelli antichi. Sbagliando, mi ha ricambiata soltanto un freddo neoclassicismo. Occorrerebbe altro. Lasciarmi andare ancora e più di un tempo, spingermi in faccia al timore. Spendermi immemore di me, come uno degli elementi classici, vento, acqua, terra o fuoco. E, fatto il mio corso, io me ne andrei serena, senza essermi sforzata di essere un’eccezione.
La spazialità ecco quel che manca nella nostra metrica del vivere moderno. Nella sequenzialità dei movimenti e delle prospettive che rappresentano l’idea di noi, manchiamo
di una nostra dimensione di movenza e siamo forma compatta senza tempo. Ci rassicura la riconoscibilità dell’essere qualcuno uguale al suo simile, dal giorno del cambiamento in poi ci siamo incamminati in questa strada di condiscendenza di noi stessi trovandoci stupefacenti, perché più niente è sconosciuto, è azzardato, non c’è niente che ci spaventi.
Manchiamo di problemi che hanno reso vulnerabili e imperfette le nostre forme d’origine, esaltati e programmati a esseri onniscienti. D’altro canto da che l’uomo è la totalità del tutto ci appaga pensare che il dubbio e la critica e l’impuro non appartengano a questo limbo sereno che riproduce se stesso a se stesso, con una sua sonorità di fondo.
Senza lacrime, ne sangue, ne nervosismi o sessualità imbarazzante siamo perpetui nell’agire e nel fare, destinati a comprendere che il nostro numero è immutabile. Da quando abbracciando la vita ci è concessa la “non morte”, siamo opere di un’arte eccelsa destinata al divino. Noi siamo luce senza tenebra, siamo autonomi e vitali senza sporcarci di nutrimenti, non subiamo ne caldo ne freddo, ambivalenza annullata dalle nostre precedenti invenzioni. Siamo persecutori e artefici di chi siamo dal momento che abbiamo annullato il futuro, concetto altrettanto buio e destabilizzante. Ma appunto manchiamo dell’unica cosa che manca, la spazialità, ed è per questo che alcuni nostri simili decidono di dissolversi per lasciare spazio ad altri simili, una forma arcaica di sentimento che un tempo chiamavano altruismo e ora è altro da sé. Incomprensibile ma vantaggioso per chi resta.
Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 28
Illustrazione di Fabio Visintin
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