Avevo ripreso a compiere con cura e con calma i gesti più semplici, come ricevere un pacchetto di mandorle caramellate dalle mani dell’ambulante, e dire un: – Grazie -, accompagnato da un sorriso angelico (il venditore avrà avuto più o meno la mia età; o magari mi sbaglio, è parecchio che non controllo nello specchio il più recente aggiornamento di me), prenderlo e aprirlo. Frugare, anzi, scartabellare, visto l’alto livello di controllo esercitato, col medio e l’indice, ficcarci dentro anche il pollice e riemergere con la mano chiusa attorno a due o tre praline irregolari, ruvide e scure, tanto profumate di zucchero e così promettenti, da desiderare di cacciarle all’istante in bocca con tutte le dita, a rischio di darmi un morso senza accorgermene, a rischio di soffocare per la foga. Rischio subito eluso perché, anche con la saliva che mi schiumava dal fondo del palato e che iniziava a emergere all’angolo delle labbra, che aprivo e chiudevo passandoci in mezzo con la lingua, mi guardai prima bene attorno con circospezione.
Qualche persona mi passava accanto. Una coppietta troppo impegnata a perdersi negli occhi; un manovale curvo, le mani in tasca, il passo veloce e lo sguardo basso sulla sua sigaretta; nell’angolo della piazza opposto al mio un carabiniere parlava con un tizio in borghese, troppo lontani per darmi retta.
La mano a coppa stretta attorno al suo bottino uscì dall’ombra e consentì uno sguardo concentrato. Erano belle, cazzo, quelle mandorle. Così casuali nella conformazione presa dalla cottura. Comprate in strada, senza dichiarazione di provenienza, e l’ambulante sembrava pure un nordafricano. Belle. Potenzialmente sporche. Vendute a me da una cucina anonima, clandestina, incontrollabile. Oggetto di un atto di fiducia estrema. Venite a me.
Prolungai la visione fino a toccare il mare, che sfrigolava in lontananza verso il tramonto.
Venite a me, mandorle caramellate. Con una manciata lunga, strusciata a tirare il labbro inferiore giù contro il mento, vi porto dentro la bocca desiderante, fatela piena. Riempitela del vostro gusto rosso brunito, lasciatevi roteare dalla mia lingua, rendere zuppe dalla mia saliva. Ah, che gusto. Che gusto.
Ne masticai come se mai ne avessi potute assaggiare prima. Stordita da tanto piacere e delusa dalla breve durata, scordai tutte le cautele e pescai ancora dal cartoccio grezzo, prendendone di più. Con gesto più veloce. Le ficcai in bocca senza degnarle di mezzo sguardo.
Le mie puttane. Godo di voi, e voi non vi ribellate, brave. Vi getto a palate, vi ammucchio, vi addento, vi bagno di saliva, vi ingoio e torno a le superstiti rimaste tra denti e guance per finirle a morsi e ingoiare anche loro.
Ripetei il gesto, forse una volta di troppo: Una si mise di traverso tutta intera nella glottide, e d’un tratto non respiravo più.
Cercai di ritornare in me, di ragionare con calma su cosa fare, ma l’urgenza di vita stavolta bloccò la mia intenzione. Il mondo si fece scuro e opaco, dalla mia bocca aperta sentivo uscire una pappa zuccherosa. Dimenticai il sacchetto, forse finì in terra. Portai d’istinto le mani contro lo sterno e poi contro la gola, scoprii di non poter tossire. Un caldo intenso mi invase collo e orecchie, lambendo il mio cervello. Ogni pensiero era vano, ogni speranza lontana come le sagome controluce dei natanti al largo, ultima immagine colta prima di svenire.
Riaprii gli occhi sentendomi schiacciare forte contro l’addome, mi accorsi di aver sputato fuori qualcosa, di avere un corpo addossato al mio, sentii la schiena calda, provando freddo in qualunque altra parte. Con quelle sensazioni che si affacciavano disordinate alla mia coscienza riemersa, seppi di essere viva.
Il corpo che mi sorreggeva, adesso mi adagiò con cura sul terreno, e mi si inginocchiò accanto. Era l’ambulante, ne riconobbi gli occhi, la bocca sorridente e, eccole lì, due volte benefattrici nello stesso giorno, quelle mani grandi e scure, dalle unghie smozzicate. Non feci caso se fossero pulite.
Gli dissi, ancora: – Grazie – , senza badare al tono della voce.
Lui aggrottò la fronte.
– Lo sai – , mi prese a dire, e io mi feci più piccola, temendone il rimprovero. Capendo il peso reale del mio gesto. Il rischio corso, la sventatezza e il costo che stavo per pagare.
– Lo sai -, riprese, – cosa significa quello che è appena successo?
Senza riposte pronte, mi limitai a interrogarlo muta, guardandolo dal basso.
– Che siamo liberi.
Tutto lì. Siamo liberi, aveva detto, e insieme avevamo guardato l’orizzonte, oltre il confine della piazza, oltre il pontile. Le barche ora sembravano vicine e distinguevo le onde entro cui oscillavano in quel pomeriggio tiepido e senza vento. L’odore del mare mi colpì l’olfatto. Vidi il cartoccio in terra, le mandorle sparpagliate annusate da un cane randagio. Non mi importava più di loro. Eravamo liberi.
Il ragazzo mi respirava vicinissimo. Doveva aver fumato.
– Sì, è così. – Stavolta riuscii a sorridere. – Non avremmo potuto fare questo.
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1 Maggio 2020 alle 17:19 |
Bei tempi quelli quando era possibile prendere un cartoccio di mandorle caramellate senza problemi.
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