Ti mantenevo la promessa fatta, una promessa a mo’ di imposizione. Facciamo cose insieme, potremmo andare a Londra, o sollevare pesi, o allevare un cane. La più probabile, tanto per cominciare, potrebbe essere quella di cucinare. No, non che abbia una qualche tradizione da esibire, né che cucini in modo strepitoso. Ci sono due cosette che so fare, e a quelle due tu non hai detto no. Dovresti solo metterti a impastare ma mi hai assicurato che ti piace, mi sembra sia la giusta condizione.
Che tu mi segua non è per devozione, non è per noia, neppure per dovere. Mi segui solo perché tu mi vuoi bene, altri motivi non voglio immaginare. Ti ho chiesto tempo per spartire dolcezza, una crostata oppure un ciambellone. Abbiamo l’occorrente e tutti gli strumenti, e ti ho aggiustato addosso anche il grembiule. Si parte, prendo il cartone e con le mani ti passo le uova. Ma tu ti metti a fare il giocoliere, qualcuna cade e si rompe, e a te sta bene, mi dici di guardare. Intanto ridi: dai gusci escono implumi degli umidi pulcini.
Versando la farina notiamo chicchi scuri. Alcuni si aprono e crescono, formando delle spighe. Dovremmo mieterle? Penso sia meglio rinunciare. Rimetto via lo zucchero e il tegame. Sarebbe proprio tutto da rifare, se non che è quasi ora di svegliarmi, e non mi sento di ricominciare.
Mi dici: Ho fame, mangiamo pane e miele. Apro il barattolo e mi metto a spalmare, copro le fette ma il coltello vibra. Dietro il ronzio ci si presenta un’ape, poi fa un concerto tutto l’alveare.
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