Iper Madeleine in tre atti (un sogno) /3

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3. Al termine della notte

 

7/07/2012

 [segue]

Seguirono anni di aridità voluta. Durò, mi sembra, quasi un’eternità. Forse è stata necessaria, ma quanto tempo. Tanta paura a usare le parole. Prima di riprovarci ci pensai su molto a lungo. Di quando in quando scoprivo racconti sani e li studiavo scettica. A furia di ascoltare senza coinvolgermi, iniziai a ritrovare un senso. Riverberi tra le esperienze di ciascuno, e non solo. Anche tra queste e la collettività. Storie che illuminano zone proibite, riaprono vecchie ferite ma, invece che una volta, portano su nuove strade, fuori da sé, nel mondo. Infondono speranza e danno forza per agire. Poi mi sentii pronta. Recuperai anche il mio bisogno di terra curata, mi ci accostai pian piano, con apparente indifferenza.

Come ne avevo l’occasione, ronzavo attorno a quei progetti che, anche alla lontana, prevedevano il ricorso alle meccaniche, ai fondali, alle storie archetipe, e il mio interesse deve essere stato notato. Una volta, di ritorno da un lungo periodo nel mio nuovo podere, mi è stata offerta questa opportunità (sono una persona inoffensiva, mi do da fare senza troppe domande). E l’ho colta al volo.

Per dedicarmi ai miei automi ho tralasciato il resto (eccetto libri, dischi e la mia terra). E’ un genere di nicchia, ci vuole tempo, una competenza da orologiai, una sensibilità da streghe (stavolta quelle buone), una faccia tosta da attori. Sono meccanismi di disarmante semplicità, che dicono nati dall’incontro di un riccio con un’arpa. Fragili se esposti alle intemperie, soggetti a raffreddori e febbri tanto quanto lo è chi gira la manovella.

Per mia sfortuna io non so suonare. Mi sono ritrovata, in atmosfere fatte di musica e d’immagini, a raccontare storie con la voce. La gente se le porta via impigliate tra i capelli fino ai sogni, solo perché ancora gli gira in testa una canzone, come girava dentro il mio organetto.

Il repertorio è popolare quanto basta per non insospettire. Quasi nessuno sa di camminare sul confine friabile tra mente ed universo. Dove si trova l’energia che, dalla notte dei tempi, da coraggio agli uomini. Quella che porta fianco a fianco a costruire ponti di dignità, di orgoglio e di indipendenza, in omaggio ai loro desideri finalmente liberati.

A volte improvviso, seguendo una richiesta estemporanea, accetto tutto fuorché temi religiosi. Spunta dal cerchio qualcuno che aspettava solo che la mia corda venisse pizzicata per entrare in risonanza. Canta sulla mia musica e colora di ricordi personali il racconto che io svolgo. Si commuove, e con lui sospira il pubblico.

Più spesso però, alla finestra, mentre ripenso alla mia vita ingarbugliata, me la ripeto, con voci sempre nuove. La riorganizzo, giocando ai burattini con le mani (eh, sì che si divertono). Se alla fine ho il naso che mi prude, ho fatto centro. Sveglio Luigi, anche nel cuore della notte e buttiamo giù una traccia. Quando chiudiamo il lavoro quotidiano, mangiamo cioccolata. Poi resta a farmi compagnia mentre mi perdo a immaginare. Lo spettacolo più bello, quello che può osare strumenti più evoluti, una compagnia di contastorie sincronizzati su un unico, complesso, scandaloso copione. Una scarica che genera una devastante commozione degli astanti, con impensabili riuscite verso il mondo.

Succede invece che da noi si preferisca omaggiare la memoria, fermarsi al pittoresco. All’aria tradizionale, al testo classico. Che impresari, politici e mecenati frenino strenuamente ogni miglioria.

Così, tra le mie mani ecco messa in sordina la punta di diamante. L’innovazione dalla tradizione, il futuro alla portata. Fosse vero. Non serve un occhio tanto esperto per capire che puoi fare capannelli di persone, riempire anche un piccolo teatro, farne video e postarli su youtube, Ma non andrai lontano. Sotto una valanga di aspettative si seppelliscono le possibilità e si finisce col patire solo i limiti. Senza soldi e senza iniziativa, si lasciano le cose come sono. Ma tant’è. Per ora mi accontento e faccio quel che posso.

Intanto, ci ritroviamo ancora a tavolino io, Luigi e gli sviluppatori, esperti del soggetto del mio prossimo spettacolo, i professori Nio e Rosenkrantz. Come ce la spassiamo. Luigi ha un ruolo indispensabile: il Sostenitore, il mio, personale. Quando mi vede afflosciare su un’idea, mi pompa un po’ l’iniziativa. Se perdo parti della trama, apre il suo grande quaderno e mi ricorda tutto. Quando vado a riposarmi, lui continua a lavorare, a documentarsi, a fare proposte, che il mattino dopo mi presenta ben allineate e mi costringe a ragionarci su. Nessuna passione per l’incarico del momento, ma ha fatto scuole speciali, e molta gavetta. E in ogni momento si mantiene un uomo libero.

I due prof sarebbero più giovani di me, ma sono titolati che neanche un nobile della famiglia reale. Nio parla veloce, dissemina argomenti e fatti inconfutabili, Rosenkrantz interviene e puntualizza con educazione. Vagliamo ogni ipotesi e le sue varianti. Quindi mettiamo un punto e definiamo un nuovo traguardo. “Ci ritroviamo a breve per parlarne”. “Mi piace quest’idea”. “Anche a noi”. “Arrivederci”.

Prima di allontanarsi Nio, con gli occhi stanchi per le notti col bambino, si ferma e fa, come parlando con sé stesso: “Tutti questi ragazzi strafottenti. Vanno agli esami coi pantaloni calati, ti si rivolgono dandoti del tu. Poco ci manca che mettano gli anfibi sulla cattedra. Passa del tempo e poi ti bussano alla porta coi loro centodieci. Pure con lode! Li metti alla prova, li fai lavorare e loro? Non sanno fare niente, niente. E nemmeno fanno uno sforzo”.

Resto in piedi dopo che se n’è andato. Penso a quanto sembra giovane, il Dottor Nio. Gli farò leggere il mio libro verde.

 

Sabato e domenica li passo su in collina. Quando era certo che non ne sentissi il bisogno, un giorno che camminavo ai margini di un bosco, si aprì davanti alla mia vista un campo appena dissodato. I solchi profondi correvano a unirsi insieme nella fuga. Era tutto rintanato in una gola, chiuso più a valle da frutteti e vigne. A quella vista ebbi uno sbandamento e mi accucciai in mezzo all’erba alta e ai rovi che graffiavano, aspettando che passasse. L’altra me stessa, che dopo tanti anni tenevo ancora per mano, invece si tese ad arco verso quel terreno, con tanta forza che mi sfuggì la presa. Mi rialzai in fretta e la raggiunsi in tempo per non vederla sparire tra le grandi zolle. Era supina, sdraiata in mezzo al seminato. Vincendo la paura di udire la risposta, le domandai cosa intendesse fare. Lei, che si si era fatta pallida e tremante, alzò uno sguardo caldo su di me.

 

“Ora io ti conosco

vertigine, sollievo e causa

del dolce dolore

che culla la mia anima

 

anche se il tempo

ha cancellato il senso

della parola chiave

 

tra le tue braccia

 

come una foglia

ho voglia di un inverno

in cui morire”

 

Disse, e si dissolse nella terra scura.

Ci misi un certo tempo ad accettare il fatto, finché risolsi che un cerchio si era chiuso. Mi diedi da fare per fare mio quel campo, ora un ottimo fattore lo governa. Sennò, non sarei in grado di tenerlo. Gente come me non ne ha le competenze.

In generale, capaci e no, siamo sempre meno a volere un po’ di terra, e sempre più assomigliamo a quegli stormi che la sera fanno ritorno ai boschi, mentre di giorno si scaldano in città. Troppi. Fastidiosi. Fuori luogo. Gli uccelli nel verde, le marmitte in città. Va’ a spiegare che non è più possibile. Non c’è ritorno ai modi antichi. Trovami un albero che non sia piantato nel cemento, o una casa che non ospiti un giardino. Minimo, anche, solo un balcone. Ci dobbiamo tollerare, noi uccelli e voi motori. Siate liberi di calcare le carreggiate ai margini dei campi. Noi vi sporcheremo solo un poco i parabrezza.

 

Lunedì ho tenuto uno spettacolo, una storia collaudata. Era il teatro di quartiere, ottanta sedioline, tutto a cielo aperto. Spettatori, meno di una ventina, bambini compresi. Tra loro, il caro Rosenkrantz, venuto per solidarietà e perché il progetto è firmato anche da lui. Si è finto interessato fino all’ultimo. Un vero gentiluomo.

La mia assistente, Clara, era alle scene. Che, coi cartelloni, io fabbrico da sola (qualcosa è regalato da artisti incontrati per le strade. Andando per fiere, vivo per qualche notte in mezzo a zingari e circensi). Luigi alle mie spalle alla regia. Poco prima, ho detto anche a loro di leggere il ramarro. Parlavo di quel libretto, è ovvio. E’ che hanno entrambi quella erre esilarante. Ramarro. Ramarro. Glielo faccio ripetere a più non posso. Ridiamo insieme, e parte bene la giornata.

 

Pochi ma buoni. Si sono fatti coinvolgere, hanno partecipato. Al termine il cappello era dignitoso, hanno anche preso qualche bigliettino.

Trascino il mio carretto, lo porto fino al piano. Chi incontro per la strada non domanda. Ci conosciamo. Buongiorno e buonasera e un sorrisino. Non voglio disturbare, sembro un tantino pittoresca. Basta una mossa falsa, che mi sbilanci appena un po’ e appaio strana. Lo strano, lo straniero fa paura. Non oso immaginare (niente domande, sono inoffensiva).

Mi metto alla finestra, ho ancora un po’ da fare. Le mani però, non vogliono saperne. Guardo verso sinistra, loro manovrano a destra. Che fate? Non trovate cosa? Non trovano più il libro. Cielo.

Siamo persi. Io, qui, sola e lui, poggiato chissà dove. L’ho sempre sospettato che fosse troppo in gamba per restare. Se n’è andato, accidenti a me, è troppo presto. Scendo di nuovo in strada. Sta per imbrunire e oggi ancora non ho mangiato.

Corro, mi fermo. Fischio alla sagoma in ombra di Savio:

– Hai preso il mio libretto?

– No, avevo altri impegni, ma lo farò.

– E’ troppo tardi, l’ho perduto. Aiutami a cercarlo.

– Scendo!

Eccolo, lo sguardo è saltato giù e se l’è tirato dietro. E’ un po’ ammaccato, ma si spolvera appena la giacca:

– Posti che preferisce? Abitudini?

– A volte lo porto nella piazza. – Devo ammettere che spesso è lui che mi trascina. Ne sa molto più di me e gli vengono certe idee. Erano anni che non mi godevo così questa città. Libri (mica tutti, però). Altro che finestre.

– Andiamo.

Correndo, arriva anche Clara.

– Che è successo? – Savio le spiega tutto. A poco a poco si aggiungono persone. Sulle prime, mi sono familiari. Viene Luigi, poi i miei due prof e qualcuno del pubblico di oggi. Portano amici. Sono entusiasta, decido un piano. Mentre lo illustro, intorno ho facce nuove. Tutti per il libro, evviva. Quando lo troveremo ne parleremo, è certo. Discuteremo, faremo analisi e ci alleeremo. Sarà un nuovo inizio. Andiamo, fatti ritrovare!

Parte la battuta, tutti si sparpagliano. Ora non posso mica andare a vento, tiro le marce e vado dritta verso la fontana. Adesso è buio, il muschio è umido. Provo una morsa allo stomaco, forse è la fame. Sono ancora sola qui, cerco di abituare gli occhi ai giochi di luce e ombra. Non so come chiamarlo, la situazione è ridicola.

Passa altro tempo ed eccole. Figurarsi se potevano mancare. Scivolano a goccioloni sul mio viso e non sono certo schizzi della fontana. Lei in questo frangente si è come ritirata. Molto discreta, mormora e bisbiglia, le scendono trecce d’acqua a piombo nella vasca, come perfetti tuffatori olimpici. Rispetta il mio dolore. Ancora sono sola. Mi rassegno, posso anche lasciarmi andare, ormai. Che liberazione qualche bel singhiozzo tondo. Seduta, poi mi accascio, guardo per un po’ tutto per storto e infine chiudo gli occhi.

Mi sveglio perché ho le orecchie che mi sbattono. Per un istante provo empatia per Dumbo, ma è un po’ diverso. Sto molto in alto, il cielo è terso. Non sento freddo, sono avvolta in una pagina morbida. Le cose sono due, o si è ingrandito il libro o sono io più piccola. Anzi, le cose sono tre, è anche possibile che stia ancora sognando, ma il mio cervello (altro secessionista) ha scelto di non dirmelo.

Quassù è tutto molto silenzioso. A parte l’aria che fa sbattere le orecchie. Non avevo mai sentito un silenzio così. Mi sento bene, mi basta sapere che ci sei, non dirmi nulla. Ci aggiriamo piano piano sopra i tetti. Sbircio nelle aperture, le case sono vuote. Fatto strano, per strada è come un giorno di mercato. Andiamo a curiosare? Plana così, perfetto, restiamo dietro l’angolo. Guardali, oh, guardali. Quei tre laggiù, poggiati spalle al muro, come gesticolano. Uno prende un foglio, si gira e fa uno schema con la penna. Gli altri gliela prendono di mano e lo completano. Più in là c’è un circolo di donne coi bambini, sono sedute a terra, invitano i passanti a unirsi a loro, guarda il cerchio che si allarga. E tutte le auto blu al parcheggio! Gli autisti che discutono coi loro deputati. Si scambiano opinioni, alcuni si convincono e scappano a palazzo, c’è da votare un decreto che ha aspettato troppo a lungo. I cinema e i teatri hanno code di gente in chiacchiera. Gli anziani con i giovani, i padri con i figli. Quelle ragazze timide, guardano quelli che cedono loro il passo, gli sorridono. Si avvicinano, anche, uomini a donne, con gesti o frasi che le accendono. Finiscono a ballare guancia a guancia. Senti che musica. Che musica. C’è chi balla in ogni strada e poi, attento, qualcuno che si china, solleva una cartaccia o una foglia, segue un’idea di verde. No, non è qua sotto, cerchiamo ancora. E si disperdono a gruppi nella ricerca di cui hanno smarrito il senso originale. Però che risultato. L’avresti immaginato?

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