Il post originale è apparso su Cartaresistente il 24 maggio 2013
Gli occhi possono mentire, un sorriso sviare, ma le scarpe dicono sempre la verità.
Gregory House (Hugh Laurie), in Dr. House – Medical Division, 2004/12
Mi sento fuori posto nel mondo occidentale. Qui una bambina comincia ad essere donna nell’atto di indossare i suoi primissimi tacchi, e per tutta l’età fertile dovrà convivere con crampi, vesciche e mal di schiena. Mi sento fuori posto, vorrei essere la foglia di un albero orientale, che scivola giù dalla chioma che l’ha generata, silenziosa, lenta, compiendo ampie volute circolari, fino a calarsi nel letto del fiume sottostante. Mi sento fuori posto ma non saprei vivere altrove, quindi mi adeguo, non senza cercare di sfatare almeno, tra tutti gli stereotipi sulle donne, il principale.
Guardami, soppesami secondo i tuoi parametri e decidi: sono o non sono donna, proprio a partire dalle mie scarpe comode e strausate? O forse il fatto di non avere un armadio traboccante, che io non segua le mode, che cerchi solo e sempre la comodità mi rende meno femminile?
Ho calzature adatte per ogni occasione: Nelle mattine d’estate mi alzo, e dopo aver stropicciato gli occhi, sfilo la maglietta della notte trascorsa e ne infilo su un’altra quasi uguale. Gli shorts e due Superga sformate dall’uso completano la mise. Quindi esco e vado in giro a essere me stessa, e sto bene. Con me stanno bene gli altri. Esco la sera e indosso stivaletti: cuoio nero sbiadito, punte sbucciate, ma comodi. Il nero li fa invisibili, dal nero in su puoi ammirare la mia andatura sciolta, gli sguardi che lancio, il consenso che si crea attorno alla mia personalità entusiasta. Parto per la vacanza con uno zaino leggero in spalla e ai piedi le infradito in corda. Buone per il caldo del viaggio, flessibili in spiaggia e in piscina, effetto nudo nelle serate in discoteca, durante le quali spesso le lascio in giro e finisco a ballare scalza al centro della pista.
Solo al lavoro appaio allineata, invece è tutto finto. Confondo gli altri con tacchi otto centimetri rosso fuoco (non quattro, che il gioco non varrebbe la candela, tanto un décolleté basso appare sciatto, non dodici, che fa tanto sgualdrina da Parlamento, à la Battiato). Otto centimetri li posso sopportare, non sono ancora letali. E divento più alta, ancheggio, sento dietro di me il rumore degli sguardi farsi una fila di barattoli attaccati alla macchina dei novelli sposi. Così ho ottenuto attenzione, quando l’ho chiesta, e promozioni, e premi, e inviti. L’aspetto ne viene sempre esaltato, e non porto abiti costosi, non mi servono.
Una volta a casa, lancio le scarpe in aria appena vedo il mio uomo. Mi viene incontro con fare lento e circolare, mi fa accomodare sul divano, poi prende i miei piedi tra le mani e li massaggia a lungo. È un tipo moderno: usa soltanto mocassini di buona fattura, e in casa pantofole di pelle scamosciata.
Per me i tacchi, per lui, che è di origine asiatica, quello della circoncisione è stato lo scotto del passaggio all’età adulta. Ci unisce una compassione affettuosa, e il fatto che a fine giornata ci prendiamo cura l’uno dell’altra, con la stessa dedizione alle estremità traumatizzate da tradizioni barbare.
Chi scrive è convinto che l’eleganza di un uomo cominci dalla scarpa! E questa dicotomia potrebbe finire qui, con un’aggiunta: meglio ancora se fatte a mano e su misura. Punto! Ma per non abbandonare il lettore su questo punto, di seguito un pò di analisi sull’argomento.
Come per l’abbigliamento la scarpa da uomo ha subito nel tempo una trasformazione considerevole adattandosi giustamente all’evoluzione dei tempi. Certo è che prima della rivoluzione industriale le scarpe di qualsiasi genere erano “in mano” a chi le sapeva fare, create per l’uso a cui erano destinate. Venivano riparate all’infinito proprio perché “costruite”, quindi potevano essere smontate, sanate e rimontate nelle varie parti senza perdere forma e durata nel tempo. Oggi la parola chiave è “assemblaggio” studiato in una filiera chimico/commerciale che usa e getta anche le regole non solo i materiali, imponendo tempi certi per la loro durata. Sono cambiate anche le possibilità per sentirsi eleganti e anche la parola “eleganti” potrebbe essere tolta dal contesto sostituita da: creatività; personalità; comodità… easy. Nessun stupore nel vedere un doppio petto rigato, sopra ad una camicia bianca chiusa da cravatta di seta e ai piedi sneakers sfatte o “plasticoni” da basket usati il mercoledì in palestra, il giovedì per portare fuori il cane, il sabato al ricevimento d’elite in abbinata al doppio petto. Nessun stupore neanche per lo sposo in Tight con scarponi da fonderia slacciati, punta e tacco d’acciaio, particolarità suggerita dall’estroversa moda del momento. Il colore, il colore, il colore si spreca trasformando la scarpa in oggetto molto più utile alla comunicazione visiva che ai nostri piedi. Il prezzo, il prezzo, il prezzo non è più rapportato al genere ma al simbolico che rappresentano, quindi strapaghi un’idea marketing legata al brand più che la qualità. La forma, la forma, la forma è sempre più ambivalente, per dirla con una parola: unisex e se non lo è la calziamo lo stesso. La scelta, la scelta, la scelta che si compie per il loro acquisto riguarda l’originalità che vorremo esprimere, finendo ovviamente uniformati. Punto! E ora esprimo un desiderio, giusto per creare un punto fermo in questo testo: voglio un paio di scarpe di vera pelle a cui sia stata cucita a mano la suola di cuoio, usando fili di canapa naturale tenuti insieme da pece greca fino ad ottenere uno spago che non teme l’acqua. Voglio la stecca di legno di Pero inserita nella suola che dona flessibilità e rigidezza, un tacco di cuoio costruito strato su strato adatto al modello, né più alto, né più basso e tutt’attorno il guardolo cucito. Le voglio su misura con fodera di pelle, rivoltata sul tallone e liscia all’interno una specie di guanto per i piedi. Le voglio chiuse da lacci cerati che passano in almeno dieci fori e ti permettono di fare un’asola perfetta, proporzionata alla scarpa. Chiedo che una volta chiusa, l’asola resti e ripeto “resti” chiusa mentre cammino. Mentre cammino non voglio fare rumore, stridore, cigolio, “gnicche gnacche” di nessun genere, e voglio che la luce non venga riflessa dalle mie scarpe come fossero parte dell’astronave di Goldrake, ma venga assorbita da patine e cere naturali. Se è valido il concetto riflessologico per cui ogni organo del nostro corpo finisce per avere nel piede il suo punto finale, non capisco perché devo calzare strumenti di tortura medioevali. Punto.
Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 15
Disegno di Fabio Visintin
Tag: calzature, Cartaresistente, Davide Lorenzon, Dicotomie resistenti, Fabio Visintin, Francesca Perinelli, reblog d'antan, scarpe da donna, scarpe da uomo
14 Maggio 2018 alle 15:45 |
scarpe da uomo? cercasi. Solo brutture inenarrabili Per le donne è diverso le scente non mancano.
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14 Maggio 2018 alle 15:58 |
Pensa che io vorrei essere nata uomo solo per poter indossare dei bellissimi mocassini di buona fattura. Per quello che trovo nelle vetrine, è meglio che le donne girino a piedi scalzi…
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14 Maggio 2018 alle 16:14 |
ma esistono ancora i mocassini? Io quando cerco un paio di scarpe per me – sono un maschietto – trovo solo roba di pessima qualità. Mocassini morbidi e di buona fattura? Solo ricordi.
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