Il post originale è apparso su Cartaresistente il 23 agosto 2013
Il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare; ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio.
Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1891
Ben cotta. “Bene”, è tutto in questo avverbio il cuore della cosa. Guarda che la bontà non è scontata, nessuno la dà per certa. E la bontà, il gradimento, in fatto di cibo è tutto. A che più serve lo strappare a morsi, magari tenuta con le mani, una bistecca al sangue? Ti nutri, ma non cresci mica, non amplifichi la tua esperienza sensoriale. Grondando di liquame non purificato dalla fiamma non sei in grado di dire “Vale la pena l’impresa”. Come è accaduto a me ieri sera, che al primo morso di un collo di maiale ben sbruciacchiato e cotto sulla griglia, neanche concluso già avevo i gusti in festa. Il grasso sciolto in parte, brunito, magnificato e ricco, mi ha spalancato un mondo. Sì che ho pensato: Così dev’essere, che credi? Poi il resto è sceso giù talmente liscio: bocconi tosti e saporiti sopra, morbidi e dolci dentro, sani e leggeri. Quando il piacere passa per le papille gustative, lui, che è principio primo, sa il modo di propiziare la digestione. Prelude a sguardi carichi d’intesa, a gesti lenti, a conversazioni fluide. Dal piacere si passa solo al piacere. Finita di mangiare una bistecca ben cotta, magari accompagnata da pari contorni e un giusto bere alcolico, si compiono le imprese. La più facile delle quali sarà convincere te.
Se accettiamo il vecchio motto popolare del “noi siamo quel mangiamo” che identifica le qualità umane attraverso il cibo, dovremo anche accettare la sua scontata evoluzione: l’uomo si ciba con quello che gli piace di più. Quindi siamo qualsiasi cosa in qualsiasi posto del mondo? Non sia mai, non possiamo essere tutto perché mangiamo di tutto, in sintesi abbiamo solo bisogni e piaceri primari da assolvere, mischiati alla nostra cultura. Fuori dal romanticismo il cibo è un piacere grossolano: procurarselo o sceglierlo acutizza i sensi; condividerlo è una scelta; mangiarlo un piacere o una necessità del tutto personale. Se non ne hai fatto una scuola di vita o non sei passato al molecolare tout court, c’è da considerare che certo cibo prima di cucinarlo/prepararlo nuota, vola, si muove indipendente, perché ha sangue nelle vene che lo mantiene vivo e vegeto. Condizione indispensabile perché sia sano e quindi commestibile. Vero, è oggi opera di design nel piatto che alla fine non sembra neanche cibo ma piuttosto costruzione, azzardo, equilibrismo, ma per contro ci sono ancora (al di la della scelte squisitamente vegetariane/vegane) “pezzi di cibo” a cui rivolgiamo la nostra fame senza tanti passaggi estetici. Per antonomasia il pezzo di carne al sangue, quindi poco cotto, è una base alimentare che ricerchiamo perché non dimentichiamolo: l’uomo in sé è animale carnivoro, anch’esso buono da mangiare al sangue per altre specie viventi. Quindi, fai tutti i fiocchetti letterari che vuoi Donna per convincermi del contrario o per essere interpretata “cotè passionale-creativa”, quando la fame chiama, chiama… se vuoi restare viva devi mangiare e se non hai scelta “mangi anche crudo”.
Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 25
Illustrazione di Fabio Visintin
Tag: al sangue, ben cotta, Bistecca, Cartaresistente, Davide Lorenzon, Dicotomie resistenti, Fabio Visintin, Francesca Perinelli, reblog d'antan
21 luglio 2018 alle 21:47 |
meglio ben cotta. Una bistecca a sangue mi fa sentire un animale feroce.
"Mi piace""Mi piace"