I primi computer sono entrati presto, invece Internet l’abbiamo tenuto tanto tempo fuori dalla porta. Era ancora un’epoca analogica. Avevamo smesso da tempo di usare il contascatti ma mantenevamo, accanto al telefono di casa, i fogli che fino a poco tempo prima ciascuno degli abitanti doveva compilare segnando il numero iniziale, quello a fine chiamata, per poi calcolare la differenza e trascrivere anche quella, segnandola a proprio nome. Alla fine però abbiamo ceduto e ho iniziato a navigare anche io.
Il pc lo usavo quasi soltanto per lavoro e non c’era ancora nessuno con cui potessi scambiare email. Avevo la sensazione di perdere tempo e soldi attaccandomi alla rete per capriccio (oggi no, i soldi li perdo lo stesso ma non suona più nessun allarme interiore). Però ogni tanto mi sfiziavo a digitare sul motore di ricerca frasi a caso, per vedere cosa ne usciva. Una volta provai con “vento tra i capelli”, e venne fuori un sacco di roba: pensieri, poesie, reportage, tristezza, allegria, pubblicità. Ma quanta gente c’era col vento tra i capelli.
Attraverso altre frasi fantasiose sono approdata ad uno strano porto, dove mi ha accolto l’immagine di un gatto sornione e, sotto di lui, una raccolta di pagine scritte, elencate in ordine cronologico. Mai vista prima una cosa così. Era il posto di Lapizia, una che dava l’idea di passare il tempo sdraiata sul letto in pigiama a scrivere un diario. Mi ricordo la sensazione di fare la guardona, autorizzata, della vita di Eloisa, quella ragazza, che tra l’altro descriveva posti e fatti a me molto vicini. Infatti, viveva a pochi chilometri da dov’ero io e, visto che lo strumento lo consentiva, quasi subito le ho scritto. Lei, molto carina, mi ha risposto. Mi sembrava l’inizio di una bella amicizia, ma ho rovinato tutto non appena ho chiesto, al termine di un commento: “Scusa, non ho capito bene, cosa sarebbe questo “blog” del quale parli sempre?”. Troglodita elettronica, avrà pensato, e non si è fatta più sentire. Bah, peggio per lei. Chi si sarà creduta, chiusa nella sua torre d’avorio a farsi ammirare, magari era pure una cozza. Anche io scrivevo diari, erano pieni di disegni, poesie, trascrizioni di testi, ma mi guardavo bene dal condividerli, erano fatti miei. Sui blog sono partita col piede sbagliato, lo ammetto, sono stata affetta a lungo da un pregiudizio: i blogger erano dei narcisisti che non mi meritavano.
Col tempo Internet è diventato uno strumento di lavoro, spesso è indispensabile nella gestione della vita quotidiana, ed è anche un buon compagno nei momenti di svago. E adesso mi ritrovo abbonata al “bollettino” di Vibrisse, curato da Giulio Mozzi.
Quel sito (ma anche l’autore) è una miniera d’oro per il lettore curioso. Ed è un blog, cioé un diario, dove Giulio Mozzi pubblica i suoi pensieri, foto, annunci, recensioni e anche illustrazioni, aforismi, lavori altrui. Quello che per parte mia conta di più è il fatto che condivide generosamente il metodo e gli esiti delle sue ricerche. E risponde ai commenti anche all’infinito, se l’argomento non si esurisce da solo e prende nuovi risvolti. Risponde anche ai maleducati, finché non li rimette al loro posto. Seleziona autori, ci lavora assieme e spesso pubblica le loro storie che puoi scaricare gratis. Ultimamente ho letto con gusto, puntata dopo puntata “Il ricordo di Daniel” di Marco Candida. Non ci potevo credere, davvero un romanzo inedito gratis. Ho pensato che prima o poi dovrei fargli avere un vaglia o un bonifico perché non vale, ci hanno investito troppo tempo prezioso, per non avere un qualche tornaconto.
Oggi ho ricevuto la segnalazione dell’articolo “L’esilio in una camera d’albergo. Appunti su Norman Manea” di Demetrio Paolin. Mi ha colpito molto, forse perché involontariamente richiama mie esperienze personali che bruciano ancora e lo fa attraverso un vocabolario che riconosco, dunque arriva subito a segno anche il non-detto. Analogie, insomma, di segno digitale. A parte i contenuti poi, è buona scrittura, un’intervista senza botta-e-risposta odiosi. Ancora un insegnamento da mettere a frutto.
Avevo ricevuto un invito ad una festa anni ottanta. Che essendo stati gli anni nei quali sono uscita dal bozzolo, combinandone di cotte e di crude, per me hanno un’importanza particolare. Per il gusto di commuovermi in vista della serata, ho cercato nel web filmati originali, ero sicura di trovarne. Ogni dettaglio se ne tira dietro un altro e, se mi concentro, sono capace di rigenerare l’anima candida di quel tempo, di ritrovarmi di nuovo a tredici anni, tutta sogni, patemi e frivolezze. Dopo aver passato più di mezz’ora tra le cose di un presunto cineasta dell’epoca, a un certo punto ho capito che si trattava di finzioni. Quello che faccio io dentro la testa, lui l’aveva fatto in pratica, realizzando una serie di corti commoventi. Un recupero della vera verità, un faticoso sgombero della memoria dai fantasmi mistificatori. Su questi binari ho incontrato il fotoromanzo “Ricordami per sempre” e quindi il primo assaggio di Mozzi.
Invece, la serata disco fu una delusione. Tutti quei vecchi. Ad occhi chiusi la musica era proprio lei e il corpo era capace di ritrovare perfino i passi, i sincronismi, le emozioni di una volta. Ma come mi guardavo attorno vedevo panzoni pelati che battevano il piedino guardandosi attorno famelici e signore coi capelli in piega e la piega sulla pancia, fasciate in abitini da teenager. A furia di vedermi circondata da zombie anche la voglia di ballare se n’è andata. Sono rientrata presto, delusissima.
Lo so, nemmeno io sono un bocciolo di rosa. Chissà come mi vedono da fuori. Il fatto è che mi sono accorta che alcune cose semplicemente non succedono più e non so dire da quando. Come stare affacciata in balcone dopo il tramonto finché il mondo non diventa un quadro di Magritte; come dormire tutta la domenica mattina; come partire all’improvviso per una meta lontana (decisa all’ultimo momento) senza sapere se si tornerà in giornata; come parlare a lungo con qualcuno delle cose che piacciono a entrambi e farci sopra sogni ad occhi chiusi e sogni ad occhi aperti; come dare e ricevere carezze da dita (ancora analogiche) attente a ciò che esprimono; come andare ogni tanto (mica tutti i giorni) a qualche concerto. Me ne ricordo uno dei Subsonica qui a Roma, quando ho saltato dall’inizio alla fine sotto al palco e mi ero fatta solo una tazzina di caffè. Sono certa che potrei rifarlo anche stasera stessa. In fondo saranno passati dieci o dodici anni al massimo.
Forse é così, io vivo fuori tempo;
é vero ciò che sento sotto pelle,
é come una costante sensazione di
mancata appartenenza
che suona e vedo le tue mani
allontanarsi alla deriva delle
cose che non ho,
cose che non avrei potuto avere mai,
e cose che non so,
le cose che non ho
son ciò che sono e non chiedono scusa.
Subsonica – Cose che non ho
Tag: Blog, Demetrio Paolin, Fotoromanzo, Giulio Mozzi, Lapizia, Magritte, Marco Candida, Musica, Norman Manea, Subsonica, Vibrisse
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