Il post originale è apparso su Cartaresistente il 24 dicembre 2013
Non desidero una rosa a Natale più di quanto possa desiderar la neve a maggio: d’ogni cosa mi piace che maturi quand’è la sua stagione. William Shakespeare, Pene d’amor perdute, 1593/96
Lei ha solo quindici anni. Lo spolverio di luce dà un senso vago a ogni forma intorno, illumina le tende in movimento. Le guarda dal letto, immobile, dopo l’appendicite. Stordita, indolenzita, forse febbricitante, sfiorata sulle guance da correnti d’aria che il legno fa passare alle finestre. È brezza del mattino o è quella della sera? Nemmeno un suono arriva dalla strada, ma cigolano gli ultimi gradini della scala. Suo padre, a schiena curva nel vecchio palchettone, toglie al presepe la polvere di un anno. Cosa gli cada di mano e rotoli per terra non lo vede, però ne segue il suono tra le stanze. Tra resti di nastri, carte, e bigliettini mezzo compilati, il gatto salta e sfreccia, pazzo di un filo torto. Rincorre il fratellino che tiene l’altro capo. Irrompono in cucina ma la madre li scaccia, o non finirà la cena. È sera, forse. L’aroma che si spande, davvero sembra odore di Natale. Stretta a quella speranza, sprofonda in nuovi sogni. La sveglia un miagolio, la sfiora una carezza sulla guancia. Si alza piano, per non strappare i punti. Fissa quel figlio dagli occhi leggermente strabici, che chiama con schiocchi di labbra e lanci di vagiti. Stretta a quella certezza, si dona alla sua fame. Lo spolverio di luce si spande sopra le vecchie cose intorno, e le rianima. Oggi che ha già trent’anni sa qual è il nuovo senso di tutto. E dà la sua versione esatta del Natale.
Da grandi il Natale ha un altro aspetto, un altro senso se di sensi possiamo parlare. Può effettivamente perdere la dolcezza, la lucentezza e la sua poesia trasformarsi in una sorta di disagio costante che dura per tutto il tempo dei giorni di festa. Oppure, da grande sei per forza costretto a tornare bambino “ino ino” una sorta di regressione indotta o voluta perché altrimenti il tempo non passa, o passa male e tutto quel che riluccica a festa fai fatica a fartelo andar bene. Alla fine noi del Natale abbiamo solo ricordi, siamo costretti ad avere dei ricordi perché funziona da periodo in cui bene o male tutto si ferma e prende un’altra forma tendente alla “bellezza” diffusa.
Ma la bellezza da grande la vai a cercare in altre cose, in altri periodi, in altri sogni e bisogni e non deve per forza aspettare di chiamarsi “Natale” per essere bellezza e affettività e coesione sociale e bontà che trabocca da cornucopie dorate. Chiaro, se sei diventato grande da solo qualche domanda te la sei dovuta fare e qualche risposta te la sei dovuta dare, e mentre hai fatto questo esercizio tutto tuo sei diventato critico e la critica si sa: o tramortisce o ingigantisce, raramente è obiettiva.
Da grandi il Natale è bello quando hai l’influenza che ti blocca sotto l’albero acceso e la febbre che annulla il tuo essere iper-critico su tutto, ti trasforma in un pezzo di Presepio. In quel momento apprezzi anche il gatto di casa che cerca calore e carezze, anche lui sempre così indipendente, a Natale ha bisogno di trovare in te delle certezze che a tua volta non sai dove trovare.
Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 38
Illustrazione di Fabio Visintin
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