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Una stracciatella con Cortàzar

16 dicembre 2019

Il cielo si era richiuso, era passata la tempesta.

Il tempo di un brusco ballo solitario ed era andata via indignata, per chi l’aveva spiata senza ammirazione dietro fessure serrate e diffidenti. Con setole pungenti aveva inciso strie per i pericoli scampati e dipinto arazzi di rigagnoli e di pozze, di foglie e di detriti urbani.

Tra le sue quattro mura Leyla era tornata al suo primo nome e non guardava fuori. Quel giorno aveva galleggiato tra le note senza contare il passaggio delle ore. Era rimasta al chiuso, tra le luci ambrate e gli incensi, aveva ripreso le letture sospese, aspettando senza affettazione. Spettinata e distesa tra le cose incompiute e il gatto immaginario a cui avrebbe voluto accarezzare il collo.

Un cielo avverso non poteva spaventarla. Ciò che l’atterriva erano i percorsi a senso unico, i vicoli ciechi su cui sarebbe stato difficile fare retromarcia. Per questo nel bel mezzo di una conversazione, o di una passeggiata, di un pranzo, di una visita al museo, durante una proiezione al cinema, tirava fuori senza preavviso le sue domande incaute, rischiose di ottenere chiarimenti.

Ecco tornare lo scorcio del rione Monti, in fondo al quale rosseggiò un giorno, stupefacente e lontana, una delle due quadrighe sul colmo dell’Altare della Patria. Era davvero infuocata e avrebbe meritato l’omaggio di una fotografia esperta. Ma lei non era attrezzata, e non era proprio il momento di perdersi in capziose distrazioni.

Quella volta, sì, affettò noncuranza, annunciando che presto avrebbe cambiato casa. Lo disse avendo al fianco qualcuno che teneva invece ferma la speranza di mettere radici, lo disse per insinuare l’idea che, fino all’ultimo, si può sradicarsi senza averne a soffrire, per suggerire che lo sradicamento sia, tutto sommato, una buona cosa. E che senza radici autoimposte si resta liberi dal pregiudizio e si tengono lontane le paure che offuscano la comprensione del reale.

La quadriga della Libertà in fiamme glielo confermava in un tramonto che si tratteneva dallo svanire, divorato da un cielo via via più scuro, in una Roma sempre più rossa, aliena. Eradicata.

La confermò nel proposito suggerendole di chiedere se, il giorno in cui si fosse trasferita in una roulotte sotto un tetto di pini a picco su un mare ai confini dell’umanità, oppure in cima a un palazzo, uno di quelli là attorno, anzi: quello con la prua a triangolo proprio lì davanti, con la terrazza affacciata sulla loro serata straniera, se arrivato quel giorno avrebbe ricevuto le sue visite almeno di tanto in tanto. La risposta la soddisfò parzialmente e il cameriere intervenne a sollevarla dall’impaccio. Li richiamò in sala, dove era stato servito il loro tavolo. La risposta escludeva l’eremo marinaro.

Passata la tempesta, Leyla aveva cambiato definitivamente nome. Per strada rimanevano le foglie, i rami e le cartacce ma intanto il letto aveva biancheria fresca di bucato e tutto era di nuovo pulito e rassettato. Lei se ne stava pigra, spettinata e scomposta. Non aspettava visite e il suo animo limpido si beava di distrazioni ambrate. La lettura di Cortàzar per esempio, compagnia perfetta perfino in assenza di gatti. Un punto per la roulotte, o anche banalmente per un pulmino rosso simile a quel Fafner.

Tra le meditazioni ecologiche di un certo Lucas, in un paragrafo esemplare per stile e contenuti, Cortàzar affermò:

Un paesaggio, una passeggiata nel bosco, un tuffo in una cascata, un sentiero tra le rocce, possono appagarci esteticamente solo se ci viene assicurato il ritorno a casa o in albergo, la doccia lustrale, la cena o il vino, le chiacchiere dopo la cena, il libro o le carte, l’erotismo che tutto riassume e ricomincia.

E, ancora:

Un libro, una commedia, una sonata, non hanno bisogno di ritorno a casa né di doccia; è là che tocchiamo l’apice di noi stessi, dove siamo il massimo che possiamo essere.

Lei classificò quel paragrafo tra i vaticini, ne subì l’autorevolezza, sentì nitidamente la solida mano di Cortàzar accarezzarle il collo.

Tornò a immaginare la propria misantropia appagata dentro un superattico in centro città, tra i libri e le visite frequenti delle amicizie disponibili solo entro ristretti raggi.

Verso l’ora di cena la sua identità era definitivamente acclarata. Si preparò una stracciatella con brodo di dado, due uova e tre cucchiai di grana padano. Aveva deciso di mangiare perché, pur non avendo mai guardato dalle finestre per l’intera giornata, era convinta che fuori si fosse fatto buio.

Aveva appoggiato il libro a tavola accanto alle posate e stava portando alla bocca un bicchiere di vino, quando qualcuno che aveva piantato le sue radici nella sabbia e che andava e veniva senza avarizia di chilometri da quella che aveva eletto la sua casa, le inviò un’immagine piena di splendore.

Era l’aspetto attuale del mare che si frangeva sulla barriera di scogli. Colto nell’attimo in cui, spettinato e disteso tra le onde e il tramonto, probabilmente pago dei giochi con la tempesta e le sue raffiche a cento all’ora, tutt’altro che indispettito, lanciava al cielo schizzi e spruzzi di allegria.

Le venne da pensare: È lì che voglio vivere.

Accarezzò il dorso di Cortàzar e per una volta fu lei a parlargli: Un libro, una commedia, una sonata, potrei procurarmele anche dove mi ritrovassi appagata esteticamente. E, allora, tornando a casa per la doccia lustrale, la cena o il vino, le chiacchiere dopo la cena, il libro o le carte, e per l’erotismo che tutto riassume e ricomincia, sono sicura che arriverei a toccare apici ben più alti di qualsiasi superattico in centro città.

Cortàzar alzò il mento sporco di stracciatella e non disse nulla non trovando niente da ribattere, o forse perché aveva la bocca piena.


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