Il post originale è apparso su Cartaresistente il 5 luglio 2013
“[…] Io muoio per riaverti, / anche delusa, / adolescenza delle membra / inferme.”
Salvatore Quasimodo “Nascita del canto” da “Oboe Sommerso”, Genova, 1932.
Pollicina: La storia ha inizio dalla madre. Che è premurosa e saggia. Ma ha anche il grembo vuoto, è stanca e sola. Madre che soffre, che picchia la testa al muro. Madre che piange al buio. Madre che pianta semi, che impollina, che crea nuove varietà. Finché da un fiore ecco che arriva lei, la sua piccina. Attesa per una vita, cresce figlia perfetta, solo molto minuta. Perciò resta bambina a lungo dentro le fantasie della sua mamma, anche se presto è ormai donna fatta. La madre la trattiene, ma lei fugge. Al suo passaggio lascia cadere sassolini bianchi, non si sa mai che le venisse voglia di tornare. Piccola e deliziosa, ogni mattina inizia con lo spettacolo della sua comparsa, allo sbocciare del fiore che la protegge per la notte. Chi è tanto fortunato da vederla resta incantato. Spesso davanti a lei si para un uomo, e lei gli sfugge sempre, temendo l’urto con le sue dimensioni.
Non può però sottrarsi a lungo ai sensi. Viene il momento di incontrare l’orco. Lui tuona, e il timbro della sua voce vibra nella fragilità di lei. Lo trova brutto, e lei desidera offrirgli la propria bellezza come compensazione. Decide di infilarsi nella rosa che sa la preferita, senza poter predire cosa accadrà. Lì si addormenta, e lì lui la ritrova, dentro le prime luci di un’alba rossa e ferma.
Pollicina si sveglia, sgrana lo sguardo che da vicino non riesce a contenere l’orco in una sola occhiata. Stringe la bocca a cuore. Si intimorisce, cerca riparo e si volta, offrendogli la schiena nuda, sporca di polline. A quella vista l’orco, che ama i fiori, specie se in bocciolo, perde la testa subito. Lei, sempre voltata, sente l’alito greve che la ricopre di umidità dolciastra. È ancora in tempo per balzare giù e seguire a ritroso la scia di sassolini bianchi. Ma tentenna. Non è così convinta di volerlo veramente fare.
Orco: La mia sorte sarebbe stata segnata come in una favola, l’essere brutto e orrendo, l’inguardabile che deve nascondersi agli occhi dei più, doveva soccombere per non creare altri turbamenti. Ma mio Padre non volle, potevo rappresentare diceva l’essere evoluto proprio per questa difficoltà da superare: non avere sembianze umane. E in effetti la coscienza di essere mostruoso mi ha forgiato l’anima, l’intelletto, ma non mi ha impedito di essere sensibile. Un romantico decadente che ha affascinato intere generazioni rispuntando qua e la nel corso della storia. Ma oggi, qui, adesso, un essere dall’aspetto di orco, un moderno dai lineamenti tremendi che ruolo ha nella Società? Solo per fare un esempio anche la parola orco non ha più senso, sostituita da un più generico “sei brutto ma simpatico”, sempre che tu sappia usare le parole. A questo punto, più o meno, nel retroscena mentale di chiunque si crea quel tanto di fascinoso da dover essere indagato. Poi se hai un tenore di vita che ti proviene da una cospicua rendita, anche avere l’aspetto di un “mangiabambini” passa in secondo piano con: tre Ferrari, due Porsche e una Bentley tre litri del 1921 in garage. Chiaro quando mi incazzo le mie fattezze si esaltano, la mia voce cambia e rimbomba per le 15 stanze della Villa, mi si sente anche nell’ultimo bagno quello con i rubinetti di Stark. Ho un unico debole culinario e uno sentimentale: la torta al cioccolato e Pollicina, così la chiamo io perché donna minuta e un po’ sulle nuvole. Lei è sempre in giardino a curare i suoi fiori, non fa altro dalla mattina alla sera. Diciamo che il suo aspetto come il mio non deve far cadere in inganno, è una che quando ha voglia prima tentenna, mi fa impazzire perché sembra non concedersi, poi parte ed è tra le poche che tiene l’urto delle mie dimensioni. Un amore perfetto che non ha bisogno di nulla di più.
Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 20
Disegno di Fabio Visintin
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