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Dicotomia n. 27 – Emozione: Distacco / Passione

3 agosto 2018

Il post originale è apparso su Cartaresistente il 6 settembre 2013

Le grandi passioni sono malattie senza speranza. Ciò che potrebbe guarirle, è proprio ciò che le rende pericolose.
Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, 1809

Sei andato via per l’ultima volta, piangendo. Mi hai detto perfino “grazie”, e io non ho saputo che rispondere. So già che da domani ti porterò rancore per questo distacco, ma oggi io, per te, sento soltanto pena. E per me stessa, un senso di liberazione indescrivibile. Ho aperto la porta e mi hai detto soltanto “usciamo”. Ho capito. Mi hai accompagnata sotto un albero, dove hai preso a parlarmi, accarezzando piano i miei capelli. Provavo un’infinita pena. Intanto, dentro di me, qualcuno col cuore già oltre quell’ostacolo sbuffava: “So tutto, non c’è bisogno di parole. Adesso basta!” Il tuo lungo preambolo: da quanto troppo tempo tra noi non c’era più passione, la solitudine che ti strangolava, e io, che avrei avuto bisogno di qualcosa che tu non mi sapevi dare. Meno male che lasciarci sia stata una tua decisione. Fosse partita da me, ti avrei sicuramente ucciso. Rialzandoci, ci siamo spolverati i vestiti a vicenda con puntiglio. È stata l’ultima volta. Sul viale del ritorno le foglie, precipitando al suolo, richiudevano il paesaggio conosciuto alle nostre spalle. “Non camminerò mai più qui insieme a te”, hai detto, e i tuoi singhiozzi radi hanno stressato la distanza tra noi e il cancello del parco, reso il cielo del tramonto ancora più perfetto, cristallizzati i voli degli uccelli e le pose dei soliti cani a pascolare coi padroni. Così ci ho visti dal di fuori: io che tiravo per rientrare in casa e tu che mi frenavi. Quando una raffica di vento ci ha spinti insieme fuori dal tracciato, tu mi hai baciata senza nessun preavviso. Non ho provato niente, né sarei stata in grado di giocare con la fantasia fino a immaginare di stringerti di nuovo tra le gambe. Richiusa la porta di casa dopo l’ultimo addio, ho contato fino a dieci, poi sono uscita tra la gente in strada, come se nulla fosse.

Ti ho visto una sola volta e forse è bastato a dirmi tutto di te. Ti ho visto una sola volta e ricordo i tuoi capelli in ordine, lunghi, osservati da dietro mentre te ne andavi. Basta una sola volta per giocarci la vita a disposizione, perché il solo pensiero di te mi entra nel sangue immaginando che tra le tue gambe potrei scioccarmi per sempre. Con te in testa e nel cuore sono un altro, sono convinto dentro perché già sento di amarti e mi piacerebbe assaggiare quello che di buono produce il tuo corpo, divorarti al naturale senza lavacri o profumi che mi confondono.
Non so chi tu sia, non so la tua storia, la tua identità e forse sono un illuso a pensare per l’ennesima volta che sarà per sempre e senza tanti problemi. Se poi sei di un altro, beh, allora sono morto. Ma voglio comunque calarmi nella parte, voglio che tu adulta, donna vera, creativa, pericolosa, possa essere una esaltazione, un criterio e una legge, un progetto per sfogare corpo e anima. Voglio, pretendo tutto di te, voglio pretendo bocca e mani, la tua lingua nervosa che invita la mia più curiosa della tua, ma voglio anche pensieri e modi e dolcezze, femminilità, odori, fiori, cibo e unghie laccate che scavano la pelle, dormire sul tuo culo e svegliarmi mentre indossi il reggiseno. Ecco, sei già una fatica prima ancora di averti, sei già una fatica prima ancora che mi parli, sei già una fatica prima ancora di essere con me, ma voglio sudarmela perché sono cretino e con un DNA che ribolle per te quindi matto del tutto. Sono ignorante lo ammetto, sono ignorante e povero in tutto ma anche sano, sicuro di quello che sono fino alla morte che non verrà presto quindi ti puoi fidare. Prendimi ti prego, prendimi adesso per quello che sono per poi cambiare insieme.

Francesca Perinelli e Davide Lorenzon – Dicotomie resistenti n. 27
Illustrazione di Fabio Visintin

 


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