Sabato sono arrivata in spiaggia e mi sono stranita subito: c’era un sacco di gente in giro. Allora ho avuto un deja vu. Mi sono ricordata delle ferie dello scorso anno, quando stavo sdraiata col sole sulla pelle e la salsedine nelle narici e tutto sommato mi sentivo bene, la vita girava liscia dopo un bel po’ di tempo, e però proprio in quelle giornate ha ricominciato a scricchiolare. Strano, perché lo ha fatto mentre ero coinvolta nella lettura di qualcosa distante anni luce da me e dal mondo in cui vivo. Così, in un primissimo deja vu, mi sono rivista a vent’anni durante una finestra di tempo apertasi da poco, nella quale mi stavo sentendo per la prima volta in pace con me stessa e con il mondo. Stavo così bene anche allora che infatti mi era bastato leggere l’epistolario di Anais Nin ed Henry Miller per capitombolare giù in un burrone scosceso e non riuscire a tirarmi su per almeno un lustro.
Comunque. In spiaggia, sabato 2 giugno, all’improvviso ho sentito un boato, come un tuono vicinissimo, il cielo che cadeva sulla testa. E mi è tornato in mente un altro ricordo, di tantissimi anni fa, quando avevo fatto un’altra bella pensata come questa, e cioè quella di andare in spiaggia proprio il 2 giugno, e mi ero ritrovata accatastata con centinaia di bagnanti che invadevano con ogni arto disponibile i pochi centimetri quadrati che non occupavo io sul mio stesso asciugamano. Mi sono ricordata che, allora, mi domandavo: ma che è? E poi scoprivo che era l’Air show, lo spettacolo delle frecce tricolori e di tanti altri aeromobili, che per due ore circa minacciarono di cadermi sulla testa perché spegnevano il motore in volo e poi lo riaccendevano durante un avvitamento, giusto in tempo per farmi riprendere il fiato prima di svenire per la paura. E anche ieri mi sono domandata Ma che è? Toh, l’Air show di nuovo, come tanti anni… Vabbé, non ricomincio.
Anche stavolta, tutti i bambini con le mani sulle orecchie e poi, passato lo spavento, a fare “ciao ciao aerio” tutti insieme. Ma le mamme. Che, invece che i padri, stavano col naso per aria ad elencare tutti i modelli dei velivoli, perché non c’erano solo le Frecce Tricolori ma anche altri tipi di aerei, e poi elicotteri, e poi… A un certo punto si sono messi a sparare, così mi hanno detto, io non lo so, dicono che sparassero razzi colorati, però io ero girata dall’altra parte perché quando sono al mare mi piacerebbe un po’ di silenzio, per Diana! Invece quelli infrangevano la barriera del suono, e intorno tutti urlavano. O commentavano. O urlavano e commentavano insieme. E dicevano che bello, sparano. Come sarebbe a dire Che bello sparano?, pensavo, fissata sui loro discorsi, invece che immersa nei miei pensieri. A un certo punto ho detto ad alta voce: Alla faccia del lutto nazionale. E un tizio, a due centimetri da me, chissà come c’era arrivato, ha iniziato a dire “Davvero, ‘sti bastardi, perché questo nun è un paese serio come gli altri, negli altri paesi i soldi de ‘ste buffonate li avrebbero spesi per chi ce n’ha bisogno…”, e io a fare di sì con la testa, Sì, Sì, Sì. Ma chi era quello? Con chi stavo parlando? Nemmeno lo guardavo in faccia e poi, io, perché ero lì? Ah, certo, per assolvere al mio dovere di genitrice. Però. Che pena.
Meglio tornare sull’oggetto del deja vu iniziale: la scorsa estate ho scoperto che dentro al mio telefonino c’erano dei libri, tutti interi. In inglese, ma tutti interi, pronti da leggere. Mi sono detta, rispolveriamo la lingua d’Albione. E ho iniziato a leggere Pride and Prejudice, Orgoglio e Pregiudizio, nel tragitto autobus-metro-autobus. È stato facile: l’inglese del primo ottocento mica era come l’italiano di quell’epoca. Era molto simile all’inglese di oggi e Jane (Austen) aveva pietà dei suoi lettori, usava soprattutto far descrivere le scene a dialoghi ben costruiti, con un linguaggio chiaro e comprensibile. Scesa dall’autobus, l’ho letto sul marciapiede per casa. Poi durante la cena, poi mentre mi lavavo i denti, poi a letto. Così il giorno dopo, e ancora quello dopo, finché non sono arrivate le ferie. E l’ho portato in spiaggia. In più, sentivo in cuffia della musica. Se non fossi stata costretta, sempre per il mio dovere di genitrice, a preparare panini di quando in quando, sarei rimasta praticamente in uno stato di isolamento totale, altro che Isola dei famosi. Il sole, il vento a fior di pelle, la salsedine, la musica di sottofondo alle scene di vita della provincia inglese: sono stata incolpevolmente indotta all’innamoramento.
Voglio fare un’incursione nel novecento. Franz kafka, nello scrivere delle lettere appassionate, lunghe e dettagliate, si convinse e convinse l’altra di esserne follemente innamorato. Ingannò sé stesso e lei, e lo fece così bene che, una volta riconosciuta questa perdizione come autoindotta e fatta pubblica ammenda, iniziò a scrivere Il Processo per scagliare fuori da sé il peso tragico della colpevolezza. O almeno questo è ciò che ricostruisce Guido Crespi, autore di Kafka Umorista*, che a un certo punto del suo saggio dice: “La scrittura […] è una forma d’espressione neutra. Ad essa deve aggiungersi l’interpretazione soggettiva della lettura. Così un attore, recitando ad esempio un adattamento teatrale del Processo, potrebbe aggiungere al linguaggio scritto un secondo linguaggio, con l’intonazione della voce e l’espressione del viso e dei gesti, rendendo umoristici certi passaggi, come faceva Kafka quando leggeva agli amici. Gli spettatori inoltre, dovrebbero essere disposti ad accettare quella interpretazione.”
Tornando a Orgoglio e Pregiudizio devo ammettere che avanzavo lentamente. Le frasi dovevo leggermele ad alta voce nella testa, per essere sicura di capirle veramente, e poi lo schermo così piccolo, ogni tanto la vista si affaticava e dovevo alzare lo sguardo sull’orizzonte. In circa un mesetto mi avvicinai alla fine, ma della storia ancora non se ne veniva a capo. Quasi non ne potevo più di tutte quelle convenzioni che tenevano separati i protagonisti del libro. Finché Jane non mandò Elisabeth a farsi una camminata nel bosco e, all’acme di una suspance congegnata benissimo, da dietro una curva fece comparire all’improvviso Mr. Darcy che, in totale mutismo le consegnò una lettera. Sul contenuto di quella lettera, sull’interpretazione immediata, poi su quella meditata, su quella riferita, su quella equivocata eccetera, sul testo di una lettera lunga, piena di ammissioni ed omissioni, si inerpica il finale del romanzo tutto in crescendo. A un certo punto, però, perché troppo smaccatamente orientato al lieto fine (che io, per così dire, aborro) questo crescendo inverte la direzione e quindi decresce, si sgonfia, appiattendosi sulle aspettative del pubblico a cui era indirizzato e buona notte ai suonatori. Non era colpa sua, però. Jane era una pioniera che parlava del suo tempo attraverso i mezzi e le esperienze concesse al gentil sesso. Tanto di cappello per tutto il romanzo e pazienza se il finale mi ha annoiata.
L’epistolario come traccia condivisa (i contenuti delle missive erano spesso condivisi e discussi nelle cerchie famigliari e con gli amici) della realtà esterna e insieme della vita interiore. Un blog di una volta, nel quale non era possibile rimandare con dei link a contenuti esterni, per delegare un altro autore della definizione di un oggetto, una persona, un evento, un luogo a cui si faceva cenno. Allora si interpretava. La visione era necessariamente personale, l’altro afferrava quello che poteva e ci si ricollegava mettendoci del suo. Nella complessiva bontà ed utilità dei mezzi di comunicazione attuali, l’abitudine a descrivere attraverso un rimbalzo di interpretazioni sembra persa. La fine della narrativa, in un certo senso. Non si narra a qualcun altro per necessità pratiche, per comunicare un oggetto, una persona, un evento, un luogo reale, ma solo per esprimere se stessi (esprimere = spremere fuori da sé, Mozzi** si chiede perché dovrebbe essere interessato al vomito di uno scrittore), senza contraddittorio.
Davvero resta solo il saggio? O forse basta ammettere che ciascuno possa essere libero di cercare e di trovare il metodo, le forma narrativa nella quale il lettore trovi un suo ruolo, un coinvolgimento attivo? Questo mi sono chiesta tante volte ben prima di pensare ad aprire un blog (l’attività di blogger, dice Valter Binaghi, “può influire, ma non tanto sul contenuto della narrazione […], bensì proprio sulla conoscenza dell’interlocutore cioè del lettore, e anche del collega, cioè dello scrittore, da cui si può imparare o prendere distanza”). Ma intanto mi chiarivo, sì il saggio è una forma narrativa, incentrata su dati oggettivi. È il massimo dell’onestà e, probabilmente dell’utilità sociale. Ma esistono anche altri bisogni umani che la scrittura può soddisfare, il principale è quello della condivisione, a mio avviso, di pesi e stati d’animo (dolori, felicità, sensi di colpa, anche di quelli che non si riusciranno mai a descrivere se non utilizzando paradossi, simbolismi o anche dell’ironia). E poi, mi è stato detto, esiste il saggio personale, una forma a metà tra l’esperienza vissuta e la sua rielaborazione narrativa. Ne esistono diverse gradazioni, e in Italia c’è una qualche sperimentazione. Mi sono andata a cercare alcuni nomi: Roberto Saviano, Walter Siti, ai quali aggiungerei tra quelli che ho letto, Aldo Busi, Antonio Pascale, ma anche Erri del Luca, Francesco Piccolo,…
L’altra sera ho scritto un racconto e l’ho pubblicato. Senza ripensamenti. In genere aspetto, rileggo e spesso butto tutto. Stavolta non è andata così. Conosco bene la differenza tra giorno e notte, nella scrittura intendo. E quindi l’ho fatto apposta a pubblicare in notturna, senza rivedere tutto alla luce del giorno. Avevo deciso di fare una sperimentazione.
C’è questa estremizzazione nell’aria, della presunta opposizione tra narrativa e saggistica e io non lo sopporto. Sono una persona che in genere favorisce le conciliazioni, in casa ero quella che diceva: Guardate un ufo! Oppure: Sta passando Craxi! Quando l’aria si faceva irrespirabile e spesso, anche se non sempre, la sdrammatizzazione sortiva il suo effetto. Ciascuno prendeva un paio di secondi in più per rivedere le posizioni dell’altro, considerava anche l’esistenza di un pubblico non proprio meritevole di venire investito dalla tragedia e le situazioni sbollivano, le voci si abbassavano, le liti venivano rimandate a tempi e luoghi più adatti. Ci sono portata, alla conciliazione.
Da qualche parte ho letto un’intervista a Sandro Veronesi, che al solito usa espressioni limpide e fa discorsi piani, dove dice, vado a memoria, che un racconto può aspirare alla perfezione, per la sua forma breve, che consente il controllo di tutte le variabili. Qualcosa di più lungo, un romanzo, no. Conta di più che il lettore, e prima di lui chi scrive, provi il piacere di perdersi nella storia (ben) raccontata, con buona pace della perfezione. Ecco, l’altra notte ero sola coi miei piaceri, coi miei pensieri e scrivevo con una certa idea in testa, ma ero l’attrice, più che la regista. Una scrittura al calor bianco, la definiva Anais Nin. In questo senso quel racconto non è affatto perfetto, dopo che l’ho pubblicato l’ho riletto e ha un po’ di falle, un occhio attento le trova facilmente. Non è finito e ho deciso che lo porterò avanti quindi, sempre sperimentando, alla ricerca di un mio modo di fare autofiction, saggio personale o come altro si voglia chiamare una forma narrativa non tradizionale. Per me stessa e per chi vorrà seguirmi. Perché a me sta bene che la narrativa sia pure indagine e aiuto al lettore nell’interpretazione del mondo, specie in un momento storico come questo. Storia dei massimi sistemi e insieme storie minime, quelle di me e di te che leggi e che per forza di cose si somigliano.
Al volo, ecco un esempio di innovazione, una cosa risaputa, ma utilizzata in maniera originale: Le pompe di calore sembrano contraddire il secondo principio della termodinamica. Questa l’ha detta un giovane e brillante relatore ad un convegno a cui ho partecipato la scorsa settimana. Gli addetti ai lavori si sono fatti una risata, come me. Non si contraddice niente, solo è una macchina che abbiamo tutti in casa, il frigorifero, fatta funzionare a ciclo inverso. Il “combustibile” è l’aria, che viene portata da una temperatura a un‘altra. Questo è il segreto dei rendimenti tanto alti, mentre l’energia elettrica, o il gas, sono necessari solo al funzionamento della macchina. Mi sono ritrovata a fantasticare se potesse diventare l’argomento di un saggio. Certamente sarebbe anche affascinante, per i cultori del genere “climatizzazione”, magari potrebbe anche spingere qualche piccola folla di lettori a cambiare modus vivendi. A rendere più vicina quella rivoluzione dei costumi auspicata per il progresso dell’umanità, eccetera eccetera. Però, ecco, non è il mio genere. Immaginare una storia basata solo su questo, serve a chi ne ha bisogno, magari a uno che da Bricofer è indeciso per casa sua nella scelta tra pompa di calore, caldaia a condensazione e stufa a pellet. Forse un ebook istantaneo, una twittata senza troppi fronzoli aiuterebbe.
Ma a me non basta il manuale d’istruzioni per le scelte pratiche. C’è dell’altro, ne abbiamo tutti diritto. E la prossima giornata al mare voglio che mi resti nella memoria per quante sfumature coglierò nel rumore della risacca.
*) Kafka Umorista di Guido Crespi, Ed. Shaspespeare & Company, 1984
**) (non) un corso di scrittura e narrazione di Giulio Mozzi, pdf scaricabile da Vibrisse
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