Città raccontate: Roma n. 5 – Campo de’ fiori (su Cartaresistente)

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Campo de fiori

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– Ti ricordi quando siamo venuti a Roma la prima volta?
– Betty, se me ne ricordo.
– Non so… Era tutto così diverso. Non hai anche tu la stessa sensazione?
Don non le rispose. Era distratto, seguiva il bacino caracollante di un’altra turista, più giovane, che li anticipava di poco, avanzando nella loro stessa imprecisa direzione. Un dondolio davvero calibrato. La ragazza coi Jeans attillatissimi si amalgamò rapidamente con la movida di Campo de’ fiori e, appena fuori dalla vista, scomparve anche dalla sua memoria a breve termine.
– Uh? – Don cercò di riprendere il filo di un discorso del quale non teneva più uno dei capi in mano, ma Betty non diede segno di farci caso.
– E quella statua. Non mi ricordo che ci fosse già, proprio in questo punto.- Dopo una breve pausa riprese in un tono più flebile – Don, mi fanno male i piedi, sono stanca. Mi porteresti qualcosa da bere mentre mi siedo sotto il piedistallo?

Intanto selezionava con discrezione il posto più adatto. Lo trovò, e ci si accoccolò con compunzione, cercando di rendersi indistinguibile dallo sfondo scuro. Guardò in alto, il cielo imbruniva lentamente, e nella piazza si stavano accendendo le insegne dei locali. Sembrava un luogo senza storia, quello. Nulla che spiccasse al di sopra della folla spossante, solo un fondale aperto sul finale di un’anonima giornata estiva.
Incrociò lo sguardo della statua, rivolto verso di lei, in basso. Davvero, non ricordava che ci fosse già, quattro anni prima. Gli occhi impietriti esprimevano il suo stesso sgomento. “Cosa ci faccio qui?” sembrava domandarsi. Betty si sentì risucchiare dentro quel vuoto.
Don tornò dopo una decina di minuti tenendo due birre fredde in mano. In quella piazza senza nessuna chiesa, si frappose tra lui e la meta un gruppo di giovani prelati dall’andatura sciolta. Notò che assomigliavano a una squadra di calciatori in libera uscita durante una trasferta. Quando l’ultima gonnella nera si eclissò in uno svolazzo, Don fissò il basamento sbattendo le palpebre tante, tante volte di seguito. Si voltò a destra e poi a sinistra. Ruotò su sé stesso rovesciando a terra parte del contenuto dei boccali, e si bagnò la punta delle scarpe. In una manciata di secondi finì per sentirsi così perso da reprimere a fatica il bizzarro istinto di rivolgersi alla statua, e chiederle perché di sua moglie non ci fosse più nessuna traccia.

 

Quindi l’ali sicure all’aria porgo
né temo intoppo di cristallo o vetro:
ma fendo i cieli, e a l’infinito m’ergo.
E mentre dal mio globo a l’altri sorgo,
e per l’etereo campo oltre penétro
quel ch’altri lungi vede, lascio a tergo.

(Sonetto di Giordano Bruno contenuto in “De infinito, universo e mondi”, 1584 in “G.Bruno, Opere italiane, vol. 2” Ed. UTET, Torino, 2002)

La scultura in bronzo che rappresenta l’eretico Giordano Bruno è stata collocata nella cinquecentesca piazza Campo de’ Fiori nel 1889, dopo un lungo patteggiamento tra il papato, che temeva (e teme) Bruno anche dopo morto, e un comitato costituito, tra gli altri, da Victor Hugo, Michail Bakunin, George Ibsen, Giovanni Bovio ed Herbert Spencer.
La piazza invece, da iniziale prato fiorito, poi uno tra i luoghi delle esecuzioni pubbliche della Roma papalina (più precisamente delle condanne al rogo), oggi è un imperdibile perno della vita mondana della Capitale, specie dopo il tramonto.
Un certo contrasto c’è, non solo tra il suo utilizzo di un tempo e quello, ben più futile, di oggi, ma anche tra la presenza della statua castigata, messa lì a ricordare il frate domenicano nel punto della sua esecuzione (il 17 febbraio 1600), ordinata dal tribunale dell’Inquisizione, e la mente esuberante e libera di questi, un volo d’uccello che risveglia i pensieri di chiunque, osando alzare gli occhi da terra, si renda conto della sua presenza.

 

Testi di Francesca Perinelli
Fotografia di Luigi Scuderi

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