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Défaillances

13 giugno 2013

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Le défaillances in questione non riguardano il sesso, e quindi la Tour Eiffel vista da Marc Chagall non è qui a richiamare problematiche più degne di uno spot.

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Dovrei andarci cauta.

Esco da un periodo in cui non ho fatto altro che inanellare figuracce, ero troppo distratta. Ma, a mia discolpa, invoco i testimoni di un’annata bastarda. Sono una creatura fragile, risento degli sbalzi di clima. A me serve stabilità.  Saprà darmela almeno l’alta pressione?

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La giornata si apre, letteralmente, su uno spettacolare cielo spazzato da invisibili correnti calde e benefiche. In borsa ho un libro bellissimo, non dico quale finché non sarà l’ora. Spingo i pedali e mi allontano. Ho rispolverato la maestria di un tempo nel fare i saliscendi dai marciapiedi, e piegarmi in curva, in lieve derapata. Adesso che ho gomiti e ginocchia esposte, mi eccita anche provare il brivido del rischio, non tanto remoto, di sbucciarmele.

Gioisco delle camere d’aria belle gonfie, del battistrada ruvido che morde l’asfalto, dello scrocchio metallico del cambio, che solletico in base alla pendenza del terreno.

I giorni freddi e piovosi sono alle spalle, hanno lasciato tanto verde qui. Gli alberi. Hanno le punte chiare, si sentono più giovani, come me. Le foglie in basso, invece, si sono fatte scure e grassottelle. Godo di questa vista. Il vento muove le fronde di tutte le essenze insieme, mi ricordano il mare. Sembrano foreste d’alghe guardate con la maschera. Vorrei nuotarci dentro.

In discesa, sollevo i piedi dai pedali e apro le gambe, mi metterei a fare acrobazie. L’aria profuma, chi incrocio mi sorride.

Come si fa a pensare? Come si fa a scrivere in momenti come questi? Costantemente svolgo interi temi, mentre le mani e il corpo sono impegnati a occuparsi di altro. Il problema è trovare il tempo e la voglia di organizzarli in forma di discorso.

Quando le nuvole si accorpano contro l’orizzonte, riunite in forme strane, e assorbono i colori della luce, io punto l’obiettivo. Manovro un po’, forse un po’ troppo, tempo un secondo e le forme di prima sono già tutte sfilacciate. Così i ricordi di giorni monolitici. Bisognerebbe che fossi più tempestiva.

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La prendo a esempio: quella di ieri sarebbe stata una giornata da trascrivere così come si è svolta. Tentar non nuoce, potrei farlo anche a posteriori. Chissà.

A scuole terminate il traffico è spompato e debole. Soltanto l’abitudine mi tiene sulla giusta strada, io la seguo. L’abitudine. Così ho la mente libera e posso guardarmi intorno.

Arrivo al lavoro come dopo una vacanza. Mi metto sotto subito, funziono bene, riesco a reggere tranquilla le emergenze. All’ora giusta vado incontro a Johan davanti al solito baretto. Che poi è il terzo che cambiamo dall’inizio delle lezioni di francese. Sarà per questo. Nel suo ultimo messaggio dice che è qua vicino, ma poi resto mezz’ora a cuocere sotto il sole.

Lo vedo, finalmente. Trotterella sulle strisce pedonali con la testa un po’ inclinata e una smorfia sul viso. Alza un braccio nella mia direzione. Mi spiega: aveva equivocato il posto dell’appuntamento e mi aspettava altrove. Telefono spento per défaillance della batteria, hai voglia a tempestarlo di chiamate e messaggi. Ma non importa, tu guarda che giornata.

Sediamo, io col mio succo di pomodoro, lui con la coca in lattina davanti, e cominciamo. Mi passano accanto colleghi che non mi riconoscono, forse sono mimetizzata dentro la falsa immagine di una coppia straniera a colloquio.

E noi, dagli esercizi di grammatica voliamo subito su Parigi. Ripercorriamo i luoghi che conosco, lui mi aggiorna sui loro cambiamenti. Io gli racconto di un tipo. Uno con la madre ricca, ma che aveva scelto di vivere col padre separato, in mezzo ai ghetti neri. Lì aveva fatto esperienza di scontri con la polizia, visto cose che noi umani, eh. E deciso alla fine -a vent’anni- che solo Londra e Parigi fossero degne del titolo di Città. Uno che mi aveva insegnato come si ballava il rap, come si teneva la bottiglia di Corona tra le dita, camminando, come ci si passava il fumo. Caspita, mi fa Johan. E sorride. Se l’ho più rincontrato? Ma no, non meritava proprio. Pare che a Parigi adesso siano molti i ragazzi benestanti che si atteggiano a straccioni, che il rap si sia incancrenito e sia vissuto come una religione da interi gruppi sociali che, nelle banlieue, si abbeverano dalla nascita alla fonte dell’intolleranza.

Questo mi torna in mente ormai sotto casa, a fine corsa, incrociando la nipotina di un ex-preside. È orgogliosa per essere passata dalla prima alla seconda elementare. Tutti promossi in classe sua, ma c’è un bambino che non si comporta bene, dice le parolacce e ruba le cose degli altri “di nascosto”. Mi spiega che è rumeno, quel bambino. Tanto lo sanno tutti che i rumeni sono ladri.

Prima che si allontani con il nonno dal sorriso imbalsamato, intanto che manovro per piegare la mia bici, non posso che dirle, col tono più gentile che riesco, perché è pur sempre una settenne: “Spero che non siano tutti così, magari qualcuno di loro è anche una brava persona, no?” Non mi risponde, gioca. L’ex-preside ridacchia, mah.

Un uomo che passa ammicca: “Ruba le cose di nascosto!” “Perché è rumeno”, gli ribatto. “Fosse italiano lo farebbe allo scoperto”.

Italiani, poveretti, che la crisi mette al tappeto, e ancora si permettono di atteggiarsi a superiori. Ma si capisce. Mentre il paradosso per la Grecia consiste nel tornare allo status di  “Paese emergente”, per l’oscuramento della tv di Stato, io posso ancora entrare in casa e sapere dalla Rai che a Roma, borgata San Basilio, la folla ha linciato gli addetti di un ambulanza in soccorso di un ragazzo accoltellato. Figlio dell’omicida dell’accoltellatore, a sua volta aggressore per futili motivi.

Non c’è pericolo, altro che terzo mondo. Roma è tale e quale a Parigi, in questo.

Ma non riesco a stare, a fare cose, ad ascoltare oltre. Dal balcone si vedono le fronde degli alberi agitate dai soffi lunghi del vento. La sera è accogliente, e proprio non avrei alcuna voglia di pensare. Mi sento così stabile.

Colpa dell’alta pressione, immagino.

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