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L -6

24 novembre 2013

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Condominio e Sentimento

Bremer

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Ne senti tante sull’investitore americano

Che compra la Germania, sorvolando in aeroplano.

Però non è vero niente,

È l’invidia della gente.

Il tedesco è casa sua, ovunque sia di mano.

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Aprì gli occhi e guardò il soffitto. La sua famiglia pensava a lui quanto lui a loro? […] Forse proprio in quell’istante sua moglie si piegava sul tavolo verso i figli con un’espressione seria in volto. Sapete, bambini, se in questo periodo vostro padre è così difficile, così triste e inavvicinabile è perché si vergogna. Si vergogna come qualcuno che per una distrazione ha perso un regalo poco prima di consegnarlo. Questo regalo però non l’ha perduto nel parco e neppure in casa, non gli è caduto dalle tasche e nemmeno l’ha messo da qualche parte che non ricorda: l’ha perso dentro di sé. Per questo è così assente. Giorno e notte si scava dentro. Non avete idea, bambini, dell’oscurità che regna in vostro padre e di come lì in profondità sia quasi impossibile recuperare qualcosa. Ma vostro padre è una buona talpa e ritroverà quanto ha perduto, e così sorgerà dal letto come si sorge dal regno dei morti e allora vi chiamerà con voce allegra, perché quello che vi vorrà mostrare è la sua gioia di vivere. State attenti però. Di tanto in tanto vostro padre fa l’attore e si diverte a fare mostra di cose che non ha. […]

Jan Peter Bremer, L’investitore americano. Ed. L’Orma, 2013

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Certo che non mi aspettavo di ricevere questa notizia proprio adesso. Quando, ormai, avevo detto addio ai sogni di ricchezza.

Ho scoperto che se avessi comprato un appartamento a Berlino nel 2009, quando per alcuni mesi sono stata circuita con telefonate quasi quotidiane da un’addetta italiana di un’agenzia del posto, ed ero quasi arrivata a lanciarmi nell’impresa, quell’appartamento oggi avrebbe raddoppiato la sua rendita. Perché dal 2009, quando anche la Germania è entrata nella crisi, a Berlino gli affitti sono lievitati. L’ho scoperto durante la presentazione de “L’Investitore americano” alla Feltrinelli International vicino a Piazza Esedra, venerdì scorso, qui a Roma.

Io vivo di scrittura.

E, proprio grazie alla pubblicazione nel 2008 del mio primo (e unico) libro per l’Editore Cervigni, “Cosa c’è di vero nelle mele in un mondo senza tentazioni (a detta degli angeli)”, in poco tempo avevo ricevuto dai diritti d’autore un gruzzolo di entità né troppo grande da permettermi di non lavorare più per tutta l’esistenza, né così esigua da poterla scialacquare tutta in vizi. Io, poi, vivo con un avviso di sfratto sul groppone.

La tizia dell’agenzia ce l’aveva messa tutta per convincermi. Ma io mi ero informata per altre vie. E, capito che in Germania si vive così bene che i cittadini hanno tutto da guadagnare dal non avere casa di proprietà (ma, anzi, che chi è in affitto, ha dalla sua tali e tante garanzie da parte dello Stato, e d’altro canto canoni tanto bassi, da potersi permettere di considerare proprie, e tramandandosele generazione dopo generazione, le case altrui), ho desistito.

Poi, di recente, ho letto tutto d’un fiato “L’investitore americano” di Jan Peter Bremer. Catturata dalla descrizione della prostrazione “delirante, quasi paranoica” del protagonista in una sorta di Giornata particolare, ma per nulla stupita del fatto che i Berlinesi se ne infischiano di avere una casa di proprietà. Benché sia italiana, e cresciuta con l’idea che i risparmi vadano nascosti sotto un materasso di mattoni.

C’era Davide Orecchio in libreria, venerdì scorso. Intervistava Bremer in persona col filtro – per il pubblico – del traduttore/editore, Marco F. Solari.

Un bel match.

Si è definito il libro un “romanzo esistenzial-immobiliare”. Si è trattato delle soluzioni stilistiche che configurano il suo andamento circolare, del potere della letteratura che parla dell’impotenza della letteratura, dei virtualmente infiniti rovesciamenti di trama, immaginati dal protagonista, l’ossatura portante del tutto. Si sono svelati con l’autore i retroscena personali del periodo in cui lo scriveva, le vicissitudini parallele, la genesi dell’alter-ego, la tracotanza del vero investitore americano. Conosciuta la conclusione della vicenda reale (e il perché del – tutto sommato – lieto fine, l’unico aspetto che mi ha lasciata insoddisfatta, dove pesa la limitatezza della vita reale, che necessita sempre di scendere a compromessi, utili ma noiosi rispetto ai voli concessi dall’immaginazione).

E sono venuta a sapere che Berlino, oggi, è tutt’altro che una città che “per le sue dimensioni, è troppo vuota”. Ma che, anzi, va popolandosi sempre più. Il problema dell’alloggio si fa sempre più pressante e, ecco il punto interessante, i costi degli affitti sono praticamente raddoppiati dal 2009.

È esploso il turismo e Bremer, quando esce di casa, viene trascinato via dalla folla in direzioni sconosciute. Non può più chiedere un kebab se non ha intenzione di affrontare file di quattro ore o più davanti al chiosco che li vende. E “ogni berlinese è contento che muoia un altro berlinese”, così si libera un appartamento. Più chiaro di così non avrebbe potuto apparirmi che sono una investitrice inetta.

Ora io ogni sera torno a casa, e invece di infilarmi dentro il portoncino, vado a dormire nella carlinga di un vecchio aeroplanino rosso, per farci l’abitudine. L’ho comprato col ricavato del mio unico libro nel 2009, e l’ho parcheggiato nel giardino condominiale. Lo uso come pied-à-terre, mentre aspetto che lo sfratto diventi esecutivo.

Ma il vicinato mi invidia, mi crede una bizzarra milionaria, e io lo lascio fare.

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